giovedì 1 agosto 2013

EAP e AAP

Non devo certo dilungarmi a parlare di EAP, un acronimo ormai noto e da cui, a meno di casi di ingenuità eccessiva o ego smisurati, qualunque aspirante scrittore dovrebbe tenersi alla larga. Eppure mi vedo costretto a tirare in ballo l’editoria a pagamento anche sul mio blog, se non altro per dire la mia sulle vicende che nei mesi scorsi hanno riguardato la mia attuale casa editrice e i cui strascichi si protraggono ancora.

In breve, anni fa la 0111 Edizioni fu accusata di pubblicare a pagamento. Accusata ingiustamente e altrettanto ingiustamente diffamata. Proprio perché essere definito EAP è denigrante per un editore onesto e ancor di più, forse, per i suoi autori. Io stesso, sebbene gli ultimi sviluppi abbiano portato a una totale smentita, mi sono trovato in imbarazzo, perché non vorrei che si accostasse il mio nome all’editoria a pagamento neanche per un secondo.

La 0111 Edizioni, dicevo, ha querelato chi l'ha accusata ingiustamente e ha ottenuto ragione. Confermo, semmai ve ne fosse bisogno, che di contributi non ne vengono richiesti e che la selezione esiste. Inviai loro anche “M@rcello” nel 2011 e fui scartato. Eppure, come se in qualche modo si fosse deciso di perseguitare questo editore, di tanto in tanto spuntano articoli di blog che criticano le condizioni contrattuali proposte dalla 0111. Basta scrivere 0111 su Google e ne troverete un paio. In sintesi, si accusa l’editore di non riconoscere i diritti all’autore se non dopo le 250 copie vendute (o le 125 vendute grazie all’impegno dell’autore stesso) e di assicurarsi il diritto di prolungare il contratto a oltranza, fino a tale obiettivo.

Allora ho capito che, mandato in pensione o quasi il mostro delle EAP, siamo entrati nell’era degli AAP. Gli autori a pagamento. La gente che scrive perché vuole guadagnare.

(L’argomento è delicato. Chissà che non cominci ad avere qualche lettore in più sul mio blog. Se non altro per ricevere degli insulti.)

Scrivere è una passione. Chiunque scrive lo fa per esprimersi, per cimentarsi in qualcosa di nuovo e grande, per emulare. A differenza di altre passioni, è impegnativa, logorante a volte, richiede tempo e solitudine. Il risultato però, se c’è, trasmette una soddisfazione che altre esperienze non riescono a dare. E questa è una prima ricompensa al nostro lavoro, una ricompensa di quelle che possiamo aspettarci e pretendere. La seconda è che qualcuno legga e apprezzi il nostro lavoro; amici, parenti o conoscenti. La terza è che un editore valuti positivamente la nostra opera, ci aiuti a migliorarla e decida di investire su di essa. Ciò porta con sé alcuni eccezionali effetti secondari che si chiamano presenza del nostro libro in alcune librerie della nostra zona, presenza del nostro libro col nostro nome su siti come IBS e Amazon, eventuali recensioni dei nostri libri da parte di perfetti sconosciuti, autorizzazione a organizzare presentazioni pubbliche in librerie o biblioteche.

Non è una ricompensa questa? Non ripaga i nostri sforzi? Non valorizza il nostro impegno?

No, evidentemente. C’è gente convinta che il proprio romanzo, magari il primo, non solo debba essere pubblicato, ma debba garantire dei guadagni. Come se l’unica gratificazione possibile, o comunque l’unica che conta, fosse quella monetaria. E allora ecco le critiche – tra l’altro ancora ingiustificate, come dimostrerò più sotto – a editori come la 0111 Edizioni che, per un motivo o per l’altro (chi siamo noi per indagare o alludere? Abbiamo mai gestito una casa editrice? Sappiamo che cosa questo comporti? Io no, quindi non parlo), non possono garantire diritti d’autore milionari. Ma ripeto: ci selezionano, ci pubblicano, ci danno valore, investono su di noi con tutti i rischi che ciò comporta…

Se riduciamo lo scrivere a un’altra, mera attività per il profitto personale significa che siamo vuoti. Vuoti e falsi. Che le emozioni che mettiamo nei nostri libri, nei personaggi delle nostre storie, sono costruite a tavolino, preconfezionate, un copia e incolla studiato nei minimi dettagli per creare un prodotto commerciale. Che mentre battiamo i tasti al computer non siamo mossi dall’ardente desiderio di creare, ma dal freddo tintinnio delle monete che speriamo di accumulare. È triste.

Non dico che il guadagno non ci debba essere, ma deve venire da solo. Eventualmente. Per quanto mi riguarda, mi basta non andare in perdita. E se un giorno, per assurdo, dovessi diventare uno scrittore di grido della Mondadori o della Nord e dovessi fare i milioni, ugualmente riterrei la scrittura un fine e non un mezzo. Non scriverei mai un romanzo perché mi chiedono di farlo, perché serve.

Per finire, due conti della serva, alla faccia di chi dice che con 0111 Edizioni non si può guadagnare. Io personalmente sono più o meno in pari, non ho problemi a dirlo, ma ho venduto poco (e questo non dipende certo dall’editore…). Chi parla di diritti d’autore non considera che 0111 permette di acquistare copie personali con sconti fino al 40%. Posto che un piccolo autore come me, uno di quelli che non raggiungerà le 250 copie, vende principalmente di persona, a presentazioni o a conoscenti, significa che quel 40% è tutto guadagnato. Se il libro costa 10€ e ne compro 50 copie, spendo 300€. Se le rivendo tutte guadagno 500€… chiunque abbia fatto la seconda elementare può trarre le proprie conclusioni. Se invece sono un autore che raggiunge le 500 o le 1000 copie, allora arriveranno anche i diritti previsti da contratto e ancora una volta i devoti al dio denaro sono soddisfatti.

Per prevenire spiacevoli incomprensioni, ricordo che comunque non esiste obbligo di acquisto neanche di una sola copia. E che tutte le clausole sono specificate in un contratto che chiunque può leggere e rifiutare anche prima di inviare il manoscritto in visione. Sarebbe poi buona cosa, in caso di rifiuto, evitare di parlare male dell’editore e quindi, indirettamente, dei suoi autori, solo perché la si pensa in modo diverso.


Se ho detto cose stupide, scusatemi. Ma sono un romantico, e un sognatore.