giovedì 31 ottobre 2013

Un racconto per Halloween

Il blog Le Recensioni di Chiara ha indetto per Halloween un simpatico contest che mi ha coinvolto, portandomi a scrivere questo brevissimo racconto che mi ha portato fuori, per un po', da Alethya. Niente di speciale, ma a me piace il finale, quindi lo posto anche qui. Ditemi la vostra!


PRIMA DELL'ALBA

Dio Santo, sono occhi quelli!
Non è un’illusione, non può essere come quando la camicia appoggiata alla sedia ti appare come una persona accucciata, perché riconosco il bianco delle pupille. Sono due punti più chiari nell’oscurità della stanza, azzurrognoli per il riflesso della spia del mio cellulare in carica. È questo particolare a farmi capire che sono reali: riflettono la luce.
Non devo muovermi. Non devo muovermi.
Il resto della forma nera che sembra fissarmi, immobile davanti al nostro letto, è indefinita, ma quegli occhi e la paura – la paura, sì, è soprattutto lei a farmi registrare i particolari, per alimentarsene – mi suggeriscono contorni umani. Bambineschi. È una figura minuta, che arriva forse all’altezza del lato inferiore dello specchio alla parete. Le spalle cadenti, le braccia abbandonate lungo i fianchi, il capo riccioluto e rigido.
Non ho il coraggio di muovere altro che gli occhi. Temo che possa accorgersi anche di quelli e pure del respiro che ha involontariamente cambiato ritmo, da quando mi sono svegliato e l’ho intravisto. Provo a rallentarlo, a inspirare ed espirare con la lentezza di chi dorme.
Le lenzuola mi sono scivolate sulle gambe, lasciando scoperto il ventre. Persino la canottiera è risalita e quel piccolo rettangolo di pelle esposta mi fa sentire vulnerabile. Mi convinco che questa figura, chiunque sia, alla fine mi attaccherà proprio in quel punto, proprio per quel punto scoperto. Vorrei, dovrei coprirmi, nascondermi sotto le lenzuola fin oltre la testa, come facevo da bambino quando avevo paura dei ladri. Ma allora lo facevo al minimo rumore, al minimo, anomalo spostamento dell’aria, quando ero ancora in tempo. Oggi no, è tardi, chi può farmi del male è già al mio cospetto e se mi muovessi sarebbe ancora peggio. Perché saprebbe che sono sveglio e mi farebbe ancor più male.
Non devo muovermi. Non devo muovermi.
Vorrei aver lasciato la porta aperta. L’orario proiettato sul soffitto – lo raggiungo a malapena spingendo gli occhi all’insù, fin quasi a rovesciarli sotto le palpebre – dice che sono le cinque passate e forse a quest’ora le primissime luci del mattino mi darebbero un contrasto migliore, mi mostrerebbero questa figura per ciò che è davvero. Forse scoprirei che sì, nonostante tutto è la solita illusione ottica, troverei una spiegazione al riflesso su quelli che mi sembrano occhi e potrei rilassarmi.
Ma la porta è chiusa e il buio profondo della stanza è rotto solo da quella minuscola lucina sul Samsung e dalla sua eco – sì, la definizione mi piace – dalla sua eco sdoppiata dagli occhi della figura. Così non posso dirmi con certezza se quello che mi sembra un braccio lo sia realmente, non posso tranquillizzarmi col pensiero che sto solo interpretando un addensamento di ombre. Non prima che la sveglia suoni, tra due ore, o che trovi il coraggio di accendere la luce.
Non devo muovermi. Non devo muovermi.
Non avrei dovuto chiamarlo bambino. Ora che l’ho fatto, non riesco a pensare che sia nulla di diverso. I bambini fanno paura. Quanto sono carini e innocenti alla luce del sole, tanto diventano terrificanti nel contesto sbagliato. Li usano un sacco nei film proprio per questo, credo. E questo è un contesto sbagliato: è la mia stanza, è notte fonda e non ho figli. Se anche li avessi, non se ne starebbero immobili, al buio, a fissarmi. 



Teresa dorme al mio fianco, tranquilla nonostante il respiro affannoso. Non aveva il raffreddore ieri sera, non ricordo. Se solo si svegliasse... è stupido, è dannatamente infantile, ma se si svegliasse spezzerebbe l’incantesimo che mi tiene in scacco. Le racconterei della mia assurda paura come farei con un incubo e rideremmo insieme prima di riprendere a dormire.
Ma Teresa dorme e io non posso affidarmi solo alla mia razionalità per sottovalutare la figura che mi osserva. L’esperienza mi suggerisce che queste cose non esistono, ma la mente è meno forte e spavalda quando scendono le tenebre. E diventa bastarda e malleabile, come la mia, che anziché mostrarmi l’assurdità del mio terrore sembra piegarsi al volere di quest’ombra davanti a me e fa riaffiorare l’unico ricordo che non serve.
Non devo muovermi. Non devo muovermi.
Quattro anni fa, ormai. Tornavo da una cena di lavoro alla quale non avevo bevuto. Scendevo dalla rampa di uscita della tangenziale e mi immettevo nella grande rotonda, quindi imboccavo la seconda uscita. Erano le tre del mattino e andavo abbastanza forte perché ero stanco e non vedevo l’ora di mettermi sotto le coperte. Abbastanza, ma non troppo forte, e con il pieno controllo delle mie facoltà. Ma la musica era alta nell’abitacolo e cantavo per tenermi sveglio.
Non so che cosa facesse in giro a quell’ora quel signore col suo nipotino. So solo che lui si chiamava Piretti e che il bambino aveva otto anni e che nessuno dei due si accorse che un’auto era in arrivo, prima di attraversare incautamente fuori dalle strisce pedonali e a ridosso dell’uscita dalla rotonda. Trovarono il vecchio senza vita a una ventina di metri, nella boscaglia, mentre il bambino smise di respirare tra le mie braccia, al centro della carreggiata. Lo sorressi fino all’ultimo, cercando di trattenere le lacrime mentre gli parlavo per tranquillizzarlo.
Mi scagionarono dopo due anni. L’accusa iniziale era di omicidio colposo, ma tutto indicava una mia totale assenza di colpa. Persino un testimone di cui non mi avvidi allora, ma che usciva dal bar poco distante e che aveva assistito all’episodio, raccontò della leggerezza del vecchio e mi fece passare dalla parte della ragione. Ma io non ho mai scagionato del tutto me stesso e ho passato inutili notti insonni a chiedermi che cosa sarebbe successo se avessi tenuto il volume della radio più basso, o se fossi andato meno veloce, o se avessi girato il volante del tanto necessario a evitare i due pedoni.
Non devo muovermi. Non devo muovermi.
Così, improvvisamente sono certo che questo ai piedi del letto sia proprio quel bambino. L’altezza è quella giusta, la corporatura anche. La rabbia che scorgo negli occhi sarebbe giustificata, sebbene in quella terribile notte li avessi visti verdi e lucidi di lacrime e comprensione e gonfi di speranza e fiducia nelle mie vuote parole e... L’ho aiutato, l’ho sorretto, l’ho accompagnato nella sua agonia: ma al volante ero io. L’ho strappato alla vita e merito il suo odio, qui e ora.
Merda! Un prurito. Proprio sotto al naso. Non resisto, non resisterò. Non proprio adesso, non posso muovermi. Cerco di resistere, ma il fastidio non passa, anzi sembra farsi sempre più insistente. Storco il naso, stringo le labbra, tutte smorfie che il bambino vedrà e ormai saprà per certo che non sto dormendo e potrà sfogare su di me il suo desiderio di vendetta e chissà...
Lo starnuto arriva, ma mentre mi abbandono allo stimolo, trovo il coraggio di allungare la mano e premo l’interruttore della luce.


Voglio vederlo in faccia, prima. 

mercoledì 16 ottobre 2013

Introduzione alla prima presentazione de "Il Ritorno di Beynul"

Viadana, 18/10/2013

Circa un anno fa eravamo in Sinagoga a presentare il mio primo romanzo edito. Alla fine vi avevo promesso, quasi come una minaccia, che ci saremmo rivisti l’anno dopo. E il fatto di essere qui stasera testimonia che ce l’ho fatta, che il sogno realizzato l’anno scorso può avere una continuità.

Non starò a parlarvi di chi sono, perché scrivo e da quando, tutti temi già trattati l’anno scorso. Cercherò di parlare di più del libro, perché è per quello che siete venuti. Ma, come premessa, vorrei raccontarvi che cosa ho scoperto durante quest’anno.

Ho scoperto, o meglio ho confermato, che il mondo dell’editoria è più che complesso. Dietro alla manciata di editori famosi ci sono centinaia di case editrici medio-piccole, ognuna delle quali pubblica decine e decine di autori. Ci sono poi molti servizi di auto-pubblicazione, di cui si servono centinaia se non migliaia di scrittori. E ci sono altre migliaia di individui che hanno un manoscritto pronto e in attesa di trovare un editore. Questo per dire che farsi largo in un settore come questo è un’impresa. Ecco perché ho imparato a definirmi non scrittore emergente, ma scrittore sommerso.

Ho scoperto che intorno a questo mondo ne ruota un altro fatto di persone che lavorano a supporto di chi scrive. Da una parte ci sono agenzie e siti pseudo-pubblicitari a pagamento, ma dall’altra molti giovani che gestiscono siti, blog, riviste messe gratuitamente a disposizione degli emergenti. Ho trovato così ragazzi e ragazze che hanno recensito il mio libro, che mi hanno intervistato, che mi hanno concesso dello spazio. E che mi hanno fatto crescere.

Ho scoperto che esistono un sacco di fiere e manifestazioni che accolgono con entusiasmo le opere degli scrittori emergenti. Ho partecipato al Buk di Modena, alla manifestazione fantasy di Pandino, mentre l’anno prossimo, oltre a queste, dovrei essere al Fantasy Books di San Giorgio di Mantova. A queste manifestazioni ho visto moltissima affluenza e la scoperta è stata sorprendente.

In altre parole sono entrato, come l’ho definita in un post del blog, in una città dei Lego. Come quelle riproducono in miniatura le sembianze delle grandi città, in ogni particolare, così l’esperienza di scrittore sommerso riproduce in piccolo la vita di un vero scrittore. Il milione di copie di Dan Brown diventano le mie 200 copie vendute, la sua intervista per il Time diventa la mia per il blog Letture al Contrario, le sue mille recensioni su IBS diventano le mie due o tre… ma, grazie al mio essere consapevole di chi sono, cosa faccio e soprattutto a quale fine, le emozioni che provo sono le stesse.

Il mio fine, appunto. Tanta gente mi ha chiesto a cosa ambisco, se scrivo per fare guadagni extra, quanto ho venduto e se ne sono soddisfatto. In breve, rispondo che scrivo perché mi piace. Banale, ma vero. Scrivere non è un mezzo, ma è il traguardo stesso. Il giorno in cui scriverò per ottenere qualcos’altro (fama, denaro) la mia scrittura sarà morta, il mio sogno infranto. Un calciatore di serie D dovrebbe rinunciare a giocare, se ama farlo, solo perché non lo ospitano in televisione o non lo coprono di milioni?

Per concludere, mi spiego più precisamente con un altro brano recente dal mio blog:

La mia scrittura è un fine. Un fine che a sua volta può avere effetti collaterali che possono chiamarsi perdita o guadagno, notorietà o cattiva reputazione, ma che non è asservito a nessuno di quelli. Se così non fosse, avrei dovuto fermarmi al primo rifiuto di un editore, alla prima recensione negativa, al primo contratto che prevedeva bassi diritti d’autore, ai primi dati di vendita.

Invece vado avanti, sempre con quell’ossimorica visione della vita: punta in alto restando in basso. Punta al 10, sapendo che forse realizzerai un 8 e che anche se gli altri lo giudicheranno un 6 non sarà un fallimento, ma un passo avanti verso quel 10. E se il 10 non arriverà mai, sarà stato comunque emozionante provarci. Viaggiare verso l’obiettivo. Tanto più se quel viaggio consiste nel fare una delle cose che ami di più nella vita.

Scrivere.

Benvenuti alla presentazione de “Il ritorno di Beynul”.

mercoledì 9 ottobre 2013

Il mio segreto

Il mio segreto, se mai ne ho uno, è nel non prendermi sul serio. Non troppo, almeno. E pur senza rinunciare alla ricerca del massimo risultato.

Sono sempre andato bene a scuola. Ho sempre ambito ai massimi risultati. Ma non ho mai trascurato altri aspetti della mia vita per perseguirli, né ho fatto di quegli obiettivi l'unico, o principale, traguardo. Ho sempre corso pensando alla medaglia d'oro, ma se durante il tragitto sentivo un'articolazione scricchiolare rallentavo e godevo del secondo o del terzo posto. Gli obiettivi non devono influenzare la vita: devono indirizzarla, ma sta a noi aggiustare il tiro se e quando vediamo che ne è giunto il momento.

Nella mia ancor breve esperienza di scrittore emergente (sommerso), sono entrato in contatto indiretto anche con molti colleghi o aspiranti tali che non la pensano come me. C'è gente che ritiene che o raggiungi il massimo, o trai il meglio da qualunque attività, o non ne vale la pena. Gente che scrive un libro e pretende che quell'opera non solo trovi un editore, ma garantisca guadagni e una seppur minima notorietà, con la motivazione che l'impegno profuso per scrivere deve essere valorizzato.

Non sono qui per criticare o imporre il mio pensiero. Semplicemente lo espongo, come altri fanno altrove.

Non è sbagliato scrivere pensando di dare vita a un capolavoro degno di un grande editore e di lauti guadagni. Sbagliato è, secondo me, ritenere che solo trovare un grande editore e lauti guadagni possa valorizzare ciò che abbiamo scritto. In altre parole, l'ambizione massima serve come linea guida, come ammonimento a dare il meglio di noi stessi in ciò che facciamo. Ma una volta portata a termine l'opera, è saggio confrontarci con la realtà e ridimensionare oggettivamente le nostre prospettive.

C’è gente che mi dice «Allora tu ambisci a diventare uno scrittore famoso», o «Quando scriverai un libro per la Mondadori...», o «Scrivi perché in questo periodo di crisi bisogna provarle tutte per guadagnare», o ancora «Quante copie hai venduto/quanto hai guadagnato?». Sono tutte domande che lasciano il tempo che trovano e che presuppongono che io scriva per qualcos’altro, che la scrittura sia un mezzo.

La mia scrittura è un fine. Un fine che a sua volta può avere effetti collaterali che possono chiamarsi perdita o guadagno, notorietà o cattiva reputazione, ma che non è asservito a nessuno di quelli. Se così non fosse, avrei dovuto fermarmi al primo rifiuto di un editore, alla prima recensione negativa, al primo contratto che prevedeva bassi diritti d’autore, ai primi dati di vendita.

Invece vado avanti, sempre con quell’ossimorica visione della vita: punta in alto restando in basso. Punta al 10, sapendo che forse realizzerai un 8 e che anche se gli altri lo giudicheranno un 6 non sarà un fallimento, ma un passo avanti verso quel 10. E se il 10 non arriverà mai, sarà stato comunque emozionante provarci. Viaggiare verso l’obiettivo. Tanto più se quel viaggio consiste nel fare una delle cose che ami di più nella vita.


Scrivere.