lunedì 20 gennaio 2014

Un racconto per Natale

Lo scorso dicembre il blog Il rumore dei Libri ha indetto il contest Christmas Fantasy Dark, a cui ho partecipato con il racconto Marcio Natale. Ne è venuta fuori una raccolta di tutti i racconti partecipanti, che vi invito a leggere gratuitamente al link qui sotto (io sono a pagina 59)!


Marcio Natale (Incipit)

«Eeee… Hop
Ezio accompagnò il tappo della bottiglia di spumante che decollava verso il soffitto, con un sorriso da manifesto politico stampato in volto. Un sorriso che coinvolgeva la bocca ma non gli occhi. Poi si abbassò verso il tavolo, per riempire i calici prima che lo spumante imbrattasse la tovaglia. Infine depose la bottiglia e si sedette.
Il piccolo tavolo quadrato in cucina era addobbato per la cena della Vigilia: tovaglia rossa con decorazioni natalizie, tovaglioli di carta dello stesso colore, sottobicchieri di cartone a forma di testa di renna, candele accese e il servizio di piatti e posate delle grandi occasioni. Teresa non si era preclusa nulla. Perché quella era una serata speciale e non certo per il suo significato religioso. 
Edoardo si era trasferito a Milano ormai da un paio d’anni e le feste rappresentavano uno dei pochi momenti in cui tornava a casa. L’unico in cui lo faceva senza avere altri impegni più pressanti che lo tenessero occupato la maggior parte del tempo. Per Ezio e Teresa, che lo avevano visto andarsene dopo un terribile periodo di litigi e sfoghi repressi e che avevano temuto di perderlo per sempre, era una benedizione poter sedere al suo stesso tavolo, in armonia.
«Auguri, allora» disse Ezio, sollevando il calice e fissando gli occhi in quelli del figlio.
«Auguri!» rispose lui, con un sorriso svogliato e quasi imbarazzato, apparentemente interessato al suo sottobicchiere.
«Auguri tesoro» si unì sua madre, affrettandosi a colpire il bicchiere del figlio col proprio, quasi temesse di perdere l’occasione. Il tintinnio risuonò nella piccola cucina, pervasa dall’odore del cibo ormai consumato e da quello, più cattivo, di una certa ipocrisia. La famiglia riunita brindò e bevve alla salute di qualcosa di indefinito, che aveva la vaga forma di una riconciliazione inseguita da anni ma che probabilmente non sarebbe mai stata raggiunta. Vigilia di Natale o meno.
«Spostiamoci in salotto» propose Ezio dopo aver posato il calice. Un singhiozzo lo scosse. «Possiamo aprire i regali» annunciò, accentuando il suo forzato sorriso.

Quel che videro era talmente assurdo che, in un primo momento, lo registrarono come qualcosa di normale. Il salotto, poco più grande della cucina, era stato trasformato dalla frenesia natalizia di Teresa e assomigliava alla vetrina di un negozio nel periodo delle feste. Il grande albero in un angolo, di fianco al camino mai utilizzato, era un trionfo di nastri rossi e argento, di lucine intermittenti e di icone di Santi. Un minuscolo ma dettagliato Presepe allestito su tre cassette per la frutta si snodava nell’angolo opposto. Un elaborato festone attraversava la parte superiore della finestra, i cui vetri erano decorati con adesivi a tema. E un Babbo Natale a grandezza naturale, forse troppo magro rispetto alla sua rappresentazione classica, sostava a ridosso della parete con le mani giunte all’altezza dell’inguine, come in attesa.
Poi Teresa urlò. Edoardo, appena dietro di lei, la prese per le spalle. «Che cosa...?» chiese, prima di comprendere la ragione del suo gesto. Anche Ezio si era immobilizzato, una mano tesa e aperta come a voler suggerire al figlio di aspettare.
Lo sconosciuto travestito da Babbo Natale li fissava con un sorriso maligno dipinto in volto. Tra il cappello calcato fino alle sopracciglia e la folta barba bianca emergeva una porzione di volto dalla pelle scura, raggrinzita; gli occhi neri e piccoli erano stretti e l’ilarità che si sforzavano di trasmettere veniva tradotta in odio e follia dall’atteggiamento dell’uomo, dalla sua stessa, ingiustificata presenza. (CONTINUA...)

giovedì 16 gennaio 2014

Non sono un intellettuale

Non sono uno di quelli che sa intrattenere una approfondita discussione parlando dei grandi classici, delle tematiche affrontate nei romanzi di Dostoevskij (si scrive così?), dell’abilità descrittiva di Tolstoj, dell’interpretazione delle opere dei grandi autori della storia. Non ho mai letto romanzi perché dovessero essere letti, come se la mancata conoscenza di quel particolare libro facesse di me un lettore incompleto, un uomo a metà. Alle presentazioni, non mi sentirete mai esordire dicendo che sono stato influenzato dal neoclassicismo surrealista, da un certo manierismo post-barocco condito da romanticismo verista futurista. Non so neanche di cosa sto parlando.

Una volta, durante una serata in biblioteca, mi chiesero di citare il passo di un libro che mi avesse particolarmente colpito. Mi vergogno a ricordarlo, mi vergogno ad ammetterlo. Non perché non avessi un passo da citare, ma perché mi trattenni e non ne riportai uno dai libri di Stephen King, che pure è l’autore che mi lascia sempre le emozioni più intense. Parlai di un romanzo di Scarlett Thomas, invece (altra autrice da non-intellettuali come me), ma aggiunsi il capitolo finale dell’Ulisse di Joyce, come se dovessi per forza dare in pasto qualcosa di colto al pubblico.

Leggere, per me, così come guardare un film o studiare, non è un modo per raccogliere materiale con cui arricchire le mie conversazioni di alta cultura. Leggere è un divertimento, un passatempo. Mentre leggo un libro, non cerco significati, concetti tra le righe, morali, insegnamenti. Leggo, punto e basta, assisto a una storia, conosco personaggi, entro a far parte di vicende che sono così come appaiono e non metafore per qualcosa di più profondo. Non a caso scelgo un certo genere di romanzi.

Quando scrivo accade la stessa cosa. Scrivo per raccontare, non per insegnare. E se scrivo in quel modo, in quei termini, di quella storia, non è perché mi ispiro a Pinco Pallino, non è perché vorrei far capire ai posteri qualche profonda realtà contemporanea. Voglio dare espressione alle molteplici voci, alle molteplici correnti che popolano la mia mente. Voglio raccontare le loro storie, dipingere quadri con parole anziché colori. Non pretendo che i miei libri lascino ricordi duraturi alla gente, mi basta che, mentre leggono, si divertano.


E che non guardino a me come a un intellettuale.