giovedì 20 febbraio 2014

Scrivere ed esistere

Nella prefazione a M@rcello, scrivevo che uno dei motivi che mi aveva spinto a riprendere la scrittura era la sensazione di aver raggiunto una fase della mia vita in cui ero “in attesa di spegnimento automatico per inattività”. Una sensazione legata alla ripetitività di una vita che da studente mi vedeva trasformato in lavoratore, con poco tempo da dedicare agli interessi personali.

Ebbene, dal giorno in cui ho rimesso le mani su M@rcello si può dire che non ho più smesso di scrivere. Quella sensazione, se mai avesse voluto ripresentarsi, non ha avuto modo di riemergere perché, tra L’eredità, alcuni racconti e l’inizio della saga di Alethya, le mie soddisfazioni in campo creativo l’hanno tenuta a bada. La scrittura, assieme alla mia vivace famiglia, era una delle armi a mia disposizione per combattere la routine.

Ma l’altro giorno ho fatto una scoperta in parte romantica, in parte allarmante. Premetto che la situazione è la seguente: la saga di Alethya è ufficialmente terminata; mi appresto a sottoporre all’editore il secondo volume; ho concluso un racconto lungo che entrerà in una futura raccolta (4 Vendette); ho iniziato un nuovo romanzo, dal titolo provvisorio L’evoluzione della specie, con il quale cambio genere per tentare il grande salto verso nuovi lidi. Ma se ne riparlerà nel 2017 almeno.

Ecco, dicevo, l’altro giorno ho scoperto una cosa. Da un paio di settimane sperimentavo un disagio interiore a cui non riuscivo a dare spiegazione. Una sensazione simile a quella che si prova quando si ha qualcosa di incompiuto e continuamente rimandato. Il fatto è che, pur riflettendo e analizzando la mia situazione, non trovavo nessuna questione irrisolta nella mia vita. Moglie e figli sono a posto, al lavoro va abbastanza bene, ho addirittura ripreso a uscire nei weekend assieme agli amici perché ora i bambini sono grandicelli… Avevo terminato il racconto per 4 Vendette, come dicevo, e avevo abbozzato le prime pagine del nuovo romanzo. Allora?

Beh, l’altra sera mi sono messo al PC e ho scritto quasi cinque pagine. Ho proceduto in modo spedito e con alcune trovate originali. Ho riletto il testo ed era buono. Una ottima notizia, se pensavo che nei giorni precedenti l’inizio della nuova trama era andato avanti a singhiozzo e con continui ripensamenti e… Tutto è diventato chiaro, anche se la certezza assoluta l’ho avuta quando mi sono coricato per dormire e, finalmente, non ho più sentito quel peso sullo stomaco, quella fastidiosa sensazione.  

Avevo bisogno di scrivere, e scrivere bene.

Ho capito, insomma, che non era stato il malessere indefinito a farmi sviluppare la storia de L’evoluzione della specie con una certa lentezza, ma era la difficoltà stessa di dare “benzina” alla trama a generare il senso di insoddisfazione. Ho capito che stavo sperimentando non dico un blocco dello scrittore (avrei smentito il mio precedente post), ma una fatica creativa che a lungo andare avrebbe potuto portare ad esso. Era qualcosa di inaspettato fino a poco prima (il racconto lungo è stato partorito con una facilità disarmante e con ottimi risultati) e di imprevedibile, alla luce delle difficoltà narrative incontrate con il mondo fantastico di Alethya.

La questione è romantica e allarmante, dicevo. Romantica perché esprime il legame scrittura-vita che tutti credono esista in uno scrittore, o aspirante tale, e da cui a questo punto non posso dire di essere esente. Allarmante perché mi conferma di come la scrittura sia passata da sogno adolescenziale, a hobby, a necessità. Se prima scrivere mi difendeva catarticamente dai “dolori” di ragazzo e poi mi è servito a dare colore alla normalità di una vita da commesso e impiegato, ora la scrittura si è trasformata definitivamente da strumento a fine. Non si tratta più di scrivere per non essere triste, ma di scrivere per essere felice. Una differenza sottile, ma pesante come un macigno.

Scrivere ed esistere sembrano diventati sinonimi, a questo punto della mia vita.


O forse, senza che me ne rendessi conto, è sempre stato così.

RECENSIONE: "Sovietopia", di Marcello Nicolini


TITOLO: Sovietopia
AUTORE: Marcello Nicolini
EDITORE: La Ponga Edizioni
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IL MIO VOTO: 4 su 5

LA MIA RECENSIONE:
Questo romanzo mi ha messo al cospetto di una trama che mai e poi mai avrei immaginato se mi fossi basato solo su titolo e copertina. In poche parole la storia è veloce, piacevole, “fresca”, con tratti comici e tratti surreali e un finale inaspettato condito di azione e colpi di scena. Sembra esagerato, detto così, ma se lo leggerete non mi smentirete.
Seguiamo alcune vicende dell’ex zampolit (commissario politico) Talimov, nella cittadina di Staliza, sulle rive del fiume Amur, nei giorni successivi alla caduta del socialismo. E veniamo resi partecipi degli sforzi di Anton Ivanich (questo il nome del protagonista) di voltare subito pagina, in senso capitalistico, con l’apertura di una fabbrica di bacchette giapponesi.
Sullo sfondo c’è un mondo in lenta evoluzione, a seguito delle recenti vicende politiche, ma ancora legato alla tradizione (ben impersonata dalla babushka Nastia). Uno scenario nel quale Talimov, mentre cerca di realizzare il proprio progetto, ha a che fare con un rapporto difficile con la moglie, il sospetto della presenza occulta di agenti del KGB e il contrasto con un delinquente di stampo mafioso noto come “il pescivendolo”.
Qui mi fermo per non svelare troppo della trama, che è ben sviluppata, con descrizioni e riflessioni che non sono mai noiose ed eccessive. Perché, come dicevo, nonostante la copertina e il titolo (Sovietopia va letto come rielaborazione di Utopia, quella della svolta sognata da Talimov) sembrino suggerire altro, la lettura è molto scorrevole. In alcuni passi diventa addirittura divertente: mi riferisco alla scena in auto con i clienti giapponesi che troverete a circa metà romanzo.
Nessuna pecca dal punto di vista lessicale e grammaticale. Strutturalmente, i capitoli sono ben suddivisi, anche se nella parte centrale se ne trova uno a mio parere eccessivamente lungo e che l’autore avrebbe potuto dividere in due o tre parti.
Se devo trovare un difetto, penso alla poca profondità data ai personaggi secondari (Talimov è protagonista assoluto e le altre figure sono “spalle” non sempre caratterizzate al meglio) e alla povertà di descrizioni dei luoghi del romanzo, che forse avrebbero potuto essere dipinti con più dettagli.

Una lettura comunque consigliata per la suggestività dell’ambientazione, la non banalità delle vicende e la commistione di “registri” diversi nel corso della trama.

giovedì 6 febbraio 2014

RECENSIONE: "Il cavalluccio dalla criniera viola", di Patrizia Anselmo

 

TITOLO: Il cavalluccio dalla criniera viola
AUTORE: Patrizia Anselmo
EDITORE: La Ponga Edizioni

IL MIO VOTO: 3 su 5

LA MIA RECENSIONE
Il mio primo pensiero, al termine del romanzo, è stato: ottimo romanzo “da metropolitana”. Che non è un giudizio negativo, anzi. E vado a motivare.

La storia si inserisce in un genere classico, quello del giallo. La misteriosa scomparsa di un ragazzo di ventotto anni, Francesco, e le indagini dell’investigatore privato Raul. Il ragazzo non conduce una vita esemplare e ha una figlia, non riconosciuta dalla madre, che lascia crescere ai suoi genitori. Di punto in bianco Francesco sparisce e l’amico Andrea si rivolge all’investigatore per ritrovarlo. Il resto potete, dovete, scoprirlo voi.

La narrazione scorre rapida, supportata dall’uso del tempo presente e della prima persona, che rendono il ritmo incalzante. Il 90% del testo è rappresentato da dialoghi, battute rapide, botta e risposta che via via aggiungono particolari alla vicenda. Ogni capitolo è diviso in sottosezioni che corrispondono, quasi sempre, al dialogo di Raul con un nuovo personaggio. Una struttura che ricorda rapidi cambi di scena in un telefilm.

Da ciò deriva un forte coinvolgimento del lettore, che oltre a essere guidato nel pieno dell’indagine ha la certezza di poter proseguire nella storia senza rallentamenti. Ogni pagina, ogni riga porta nuove informazioni, con passi in cui la situazione viene ribaltata rispetto alle aspettative, come prevedono i canoni del genere. Il finale, senza dubbio, è inatteso.

Ma la “rapidità” del testo porta con sé anche una eccessiva semplificazione di personaggi e vicende. Questo mi ha portato a pensare al romanzo come a una lettura a cui dedicare brevi momenti di tempo libero: “Il cavalluccio viola” non richiede sforzi di attenzione o comprensione, al di fuori della necessità di ricordare i nomi dei personaggi. La storia è tutta lì, what-you-see-is-what-you-get. A parte qualche accenno di approfondimento psicologico e biografico della figura di Raul, ci troviamo in presenza di personaggi bidimensionali che, come attori-spalla, recitano le loro battute, funzionali alla vicenda. Anche la narrazione dei fatti stessi, il breve riassunto finale con la spiegazione del caso, le riflessioni personali di Raul soffrono della mancanza di dettagli, sono solo rapide pennellate che vogliono “dire”, più che “spiegare”.

Il giudizio è comunque positivo, per i motivi sopra esposti e per altre due ragioni.

Primo: un testo semplice e rapido non è necessariamente un difetto, se ad esso ci si approccia in modo consono. Molti lettori preferiscono che la storia sia ridotta all’essenziale e trovano ridondanti descrizioni e riflessioni dettagliate. Il mio commento nel paragrafo precedente è dunque legato a un gusto personale.

Secondo: dal punto di vista formale, il romanzo è impeccabile. La cura dell’autrice, e/o dell’editore, ha portato a un risultato ottimo, nel quale non si trovano refusi degni di nota, incongruenze o cambi di registro.

lunedì 3 febbraio 2014

Il terrore di finire

Non ho ancora sofferto, fino ad oggi, del cosiddetto “blocco dello scrittore”. Quando prendevo in mano la matita per scrivere (perché inizialmente riempivo fitte pagine di agenda con le mie prime storie dell’orrore, a quattordici/quindici anni) o mi mettevo al computer, la gestazione era finita e il parto era imminente, esplosivo. Scrivevo e scrivevo e scrivevo. Ma c’era un’altra malattia che minava le mie ambizioni letterarie: il terrore di finire.

Il mio primo lavoro impegnativo, come ho già avuto modo di raccontare, è stato il romanzo Eclissi. È attualmente conservato in un file sulla mia chiavetta, salvato in extremis da un vecchio floppy disk, e forse non verrà mai letto da altri all’infuori di me. Come per altri lavori, le prime pagine presero forma in maniera naturale e ad esse ne seguirono altre e altre ancora. Il progetto era chiaro nella mia mente, il tempo a disposizione tanto, la voglia di emulare si trovava ai massimi livelli.

Nel giro di un anno e mezzo, con pause più o meno lunghe, arrivai a oltre 400 pagine. Scrivevo sull’agenda e battevo a PC, in ogni momento libero. Ma dietro l’angolo cominciava ad aleggiare uno spettro sconosciuto e subdolo. Intuii la sua presenza quando un’idea mi fece aggiungere un nuovo personaggio alla storia, artificio che apriva stradine laterali e aggiungeva pagine a pagine, proprio quando intravedevo la fine. Fui certo della sua esistenza quando, riaffacciandomi nuovamente sull’epilogo del romanzo, scoprii che ogni possibile soluzione (soprattutto quelle che avevo preventivato sin dall’inizio) non mi sembrava all’altezza di quanto avevo scritto.

Per farla breve, Eclissi rimase incompiuto. Lo è ancora e chissà se mai arriverà alla parola fine. Lo misi da parte con la stessa naturalezza con cui l’avevo cominciato, abbandonando la scrittura fino al periodo dei primi racconti di Paura Paranoia Pazzia. E la ragione di quel cambio di rotta non era una scarsa bontà della storia – la quale, comunque, è gravemente affetta da difetti da opera prima e necessiterebbe di abbondanti revisioni – né una perdita di interesse nei confronti della scrittura.

Si trattava invece, come dicevo, del terrore di finire. Una sensazione forte, disarmante, destabilizzante. Un blocco vero e proprio, ma non dovuto alla mancanza di fantasia, bensì al timore di risultare inadeguato, di non soddisfare le attese di chi avesse letto la storia. Di non riuscire, forse, a descrivere le immagini finali che avevo in mente come avrei voluto. Ed era una paura così forte da portarmi ad accantonare un lavoro che pure mi aveva impegnato per mesi.

Ho sperimentato lo stesso terrore durante la prima stesura de L’eredità. A quelle 100 pagine scritte nel 2005 non seguì più niente per sei anni, proprio perché la bontà delle idee che avevo non si sentiva supportata da una adeguata capacità di esprimerle. In quel caso intervennero anche fattori più complessi: la necessità di far combaciare persone, eventi e date; quella di dare credibilità a una vicenda paranormale e di non lasciare spazio a obiezioni; la tentazione di lasciar perdere un’attività che mi avrebbe tolto troppo tempo, lasciandomi poche soddisfazioni. Poi è andata come sapete e per fortuna!

Oggi il terrore di finire è un ricordo. Le esperienze con i racconti di Paura Paranoia Pazzia, che erano funzionali proprio a quel mio “problema”, e il successivo completamento di M@rcello e de L’eredità mi hanno aiutato a rompere il ghiaccio. Rimane ancora qualcosa, quello sì, come un certo senso di insicurezza nel descrivere le scene finali dei romanzi, che sono le più lette, rilette e rielaborate durante la stesura. Ma in generale ho imparato a considerare il libro come un tutt’uno, un’opera che deve rimanere “alta” dall’inizio alla fine, e a dare la stessa importanza al capitolo 3 e all’epilogo, ad esempio.


Ho imparato, come recita il blog, che non è solo la meta che conta, ma anche e soprattutto il viaggio che ad essa mi conduce.