martedì 29 aprile 2014

L'inoccupato e l'emergente

Osservo un forte, e a suo modo triste, parallelismo tra la condizione del giovane in cerca di lavoro e quella dello scrittore emergente. Ho vissuto entrambe le esperienze e non voglio in alcun modo offendere nessuno dei membri delle due categorie, né sminuire lo stato di chi non riesce a trovare occupazione.

Il giovane in cerca di lavoro suona al citofono delle aziende come un venditore porta a porta. Percorre chilometri, in auto o a piedi, col sole o sotto la pioggia, armato di una cartellina strabordante di curricula dettagliati e inghirlandati. Si presenta con un sorriso smagliante, la schiena eretta e il petto in fuori, scattante come se volesse dimostrare al suo interlocutore quanto potrebbe essere attivo, operativo, proattivo, già in quei pochi secondi concessi per la consegna del curriculum. Quando ha la fortuna di poter entrare nell'azienda, ovviamente, e non viene allontanato con un "No, grazie" come, appunto, un qualunque venditore porta a porta.

Ma ecco, vedete, lo scrittore emergente non fa nulla di diverso. Armato di ingombranti copie del suo manoscritto, redatto seguendo le più scrupolose regole trovate su internet, per renderlo adeguato agli standard richiesti dalle case editrici, quello che fa non è che una versione virtuale del porta a porta. Naviga tra i siti degli editori, sforzando la vista alla ricerca delle istruzioni per l'invio della propria opera, augurandosi di non incappare nel triste messaggio che recita "La valutazione di inediti è sospesa a data da destinarsi", e invia plichi o mail a destra e a manca, accompagnandoli con lettere di presentazione che più barocche non si potrebbe.

Il giovane inoccupato torna a casa e vive con la speranza di ricevere la telefonata con cui finalmente lo invitano a un colloquio. Lo scrittore emergente torna alle sue faccende in attesa che uno degli editori a cui si è rivolto lo contatti per approfondire la valutazione del testo e parlare della sua pubblicazione. L'uno è convinto del proprio valore umano, dei vantaggi che potrebbe portare all'eventuale azienda che decidesse di assumerlo, dell'impegno che metterebbe in ogni singola mansione a lui destinata. L'altro è certo dell'attenzione e della cura dedicata alla stesura del proprio manoscritto, ricorda le notti passate a limare il testo per trovare un sinonimo che suonasse meglio, una struttura della frase meno macchinosa, un aggettivo che desse il colore adatto a un personaggio.

Ad accomunare i nostri due casi umani è la speranza, quella speranza che non conosce ostacoli che definiamo ostinazione. Ma che deve essere epurata di qualunque accezione negativa, dal momento che deriva dalla necessità, in un caso, e dal desiderio, nell'altro, di raggiungere un livello esistenziale superiore.  

sabato 19 aprile 2014

Chiara Daina intervista Jury Livorati


"Non esiste il bianco o il nero, il buono o il cattivo: la realtà è grigia, gli uomini hanno lati positivi e negativi": Jury Livorati sintetizza così il messaggio racchiuso nella sua trilogia fantasy, ambientata in un regno teocratico immaginario chiamato Alethya. Il primo volume dal titolo “Il ritorno di Beynul” (edizioni Zeroundici) è uscito nel 2013. Il prossimo sarà pubblicato a settembre e il terzo è già pronto per il 2015. 

Nella saga non ci sono né vincitori né vinti. Un escamotage per imparare a stare coi piedi per terra nonostante la dimensione del fantasy? 

Sì. Non prendo una posizione nella storia, non voglio dire al lettore chi ha ragione e chi ha torto, cosa è giusto o sbagliato. Perché la verità nella vita sta sempre in mezzo. Ci sono tanta avventura, molti colpi di scena e continui feedback. Non amo la narrazione troppo lineare.

Il Regno è governato da un ordine religioso autoritario che obbliga il popolo, povero, a fare delle offerte settimanali di cibo e merci per il sostentamento dei suoi membri. Ma parte dei doni viene rivenduta al mercato e il popolo è ingannato. Il movimento d’opposizione è rappresentato dai Tecnici, persone con poteri soprannaturali, che però vogliono sconfiggere la tirannia dei Religiosi ricorrendo alla violenza. C’è un richiamo all'attualità politica dell’Italia?

In parte, anche se il romanzo è stato scritto tra il 2012 e il 2013, nella misura in cui intendo mettere in discussione le strutture gerarchiche e le prese di posizione assolute del monoteismo e della casta politica e l’atteggiamento impotente delle persone, che accettano senza farsi troppe domande.

Archiviata la trilogia, a gennaio ti sei messo a scrivere un racconto (che per il momento tieni nel cassetto) di genere horror, il tuo preferito?

Beh, è risaputo che l’autore a me più caro è Stephen King, il Maestro dell’horror. Ho iniziato a leggere i suoi libri all'età di 11 anni, il primo è stato “Il gioco di Gerald”. Negli ultimi anni, invece, mi sono avvicinato ad altri autori, in particolare: James Joyce, Edgar Allan Poe e Tolkien. Ma la vena horror mi condizionerà sempre e, a parte questo racconto lungo ("Peterson Amusement Park"), ho diversi nuovi progetti per il futuro. 

Ti definisci un tipo ottimista.

Uno dei miei pregi è l’ottimismo, sì. Non lo sono sempre stato, ma adesso la mia vita è orientata alla positività. C'è del buono in tutto e in tutti e io mi focalizzo su quello. 

Difetti?

Sono parecchio testardo, ci rimango male se le cose non vanno come avrei voluto. In presenza di altre persone sono schivo, almeno nelle prime fasi, forse per un residuo dell'insicurezza che ha dominato la mia prima adolescenza. 

Si dice che se non hai sofferto abbastanza non puoi diventare un artista, nel tuo caso uno scrittore. Sei d’accordo?

Credo di sì. Io ho iniziato a scrivere a 13 anni proprio per sfogare un certo senso di insoddisfazione e solitudine: scrivevo poesie e ho tenuto un diario per tre anni, lo aggiornavo tutti i santi giorni: usavo la biro verde se la giornata era andata bene, quella rossa se era andata male, nera per quella normale e blu (gioia immensa) per la prima fidanzatina. Comunque fino a 16 anni sono stato una persona abbastanza triste, solitaria, pessimista; non uscivo quasi mai di casa e vedevo grigio ovunque.

Come ne sei uscito?

Un giorno mi hanno invitato al gruppo teatrale dell’oratorio e a fare l’animatore per il Grest, due esperienze che hanno rivoluzionato la mia vita: mi sono fatto nuovi amici, cosa che non avrei mai pensato considerato il mio carattere schivo. Qualche anno dopo ho incontrato Francesca, che poi è diventata mia moglie, e lei mi ha trasmesso l'ottimismo che oggi guida le mie scelte. Insieme abbiamo avuto due figli, Alessandro e Asia, e ho scoperto che la vita è ancora più bella: oggi, anche se volessi essere triste per scrivere pagine più intense, non riuscirei. Ho imparato a vedere in ogni situazione il bicchiere mezzo pieno.  

Tu hai solo 28 anni, già sposato, padre di due bambini, una laurea in Biotecnologie, un lavoro nel settore logistico di un’industria tessile del tuo paese, Viadana. Nella tua vita la scrittura cosa rappresenta?

All'inizio era un’esperienza catartica, come dicevo. Dopo le recenti pubblicazioni si è trasformata in un divertimento, in una necessità di evasione quasi ludica: non vedo l’ora di scrivere appena i bambini vanno a letto, in passato lo facevo anche al mattino presto prima di andare al lavoro (quando ero commesso). Scrivere mi fa bene alla salute, letteralmente. Se non lo faccio provo quasi un senso di colpa, come se stessi sprecando un'opportunità. La scrittura rimane comunque un hobby. Se dovesse diventare qualcosa di più serio non mi dispiacerebbe, ma la vivo con leggerezza prendendo le cose come vengono.

Da dove prendi l’ispirazione?

Dagli eventi quotidiani: una persona che vedo, un suono, un colore. Mi chiedo il perché di quello che sto vivendo e così nascono le mie storie. Non vado in cerca di fonti di ispirazione, le incontro. Anche nel sogno, uno in particolare, del 2004: ero circondato da persone verdognole e io non riuscivo a muovermi, come Roberto ne "L'eredità". 

Nel 2004 nasce l’idea del tuo secondo romanzo, “L’Eredità” (edizioni Zerounoundici), uscito nel 2012. Il plot è molto articolato, niente è casuale e dietro agli eventi c’è una trama che risale al 1400, un destino già scritto che si trasmette di madre in figlia. Come nascono i personaggi del libro?

Alcuni dai cliché: la mamma del protagonista Gisella, sessantenne, incarna la tipica vecchietta premurosa, ficcanaso, che ha un rapporto difficile con la nuora. Altri da persone che ho conosciuto, senza imitarle completamente ma fondendo alcuni aspetti in una figura nuova: per esempio, il protagonista assomiglia un po’ al mio professore di inglese quando spiegava in classe e un po’ a me, per la capacità di pensare positivo anche nei momenti brutti, di andare a fondo nelle cose, di essere legatissimo alla moglie e ai figli.

Qual è stato il personaggio più difficile da costruire?

Quello della suocera, la madre di Simona: lei conosce tutta la storia, è consapevole del destino a cui le donne della sua famiglia sono condannate, ma deve tenere il segreto. Almeno fino alla fine.

Ai giovani che vogliono dedicarsi alla scrittura cosa suggerisci?

Di non partire pensando di fare lo scrittore di professione da subito. È scrivendo che si impara a scrivere. A 18 anni ho composto una quindicina di racconti, che ho autopubblicato, di genere psycho-horror: storie di paura, paranoia e pazzia. Riguardano me, il mio territorio, le persone che conosco. Li rileggo oggi e li trovo infantili. Piano piano ho capito che i personaggi vanno scavati, limati, ripuliti dal superfluo, trasformati dal prevedibile e dall'autobiografico. È un esercizio anche personale: per evitare di mettere me stesso al centro, devo sapere bene chi sono. 
Allo stesso modo sto lavorando sullo stile, per snellirlo e rendere la lettura incalzante, veloce, in risposta ad alcune critiche ricevute con "L'eredità". Anche questo suggerisco a chi scrive: farlo sempre con la consapevolezza di essere incompleti.

Altri libri in cantiere?

Sì. Sto scrivendo un thriller, "L'evoluzione della specie", e ormai sono a metà dell’opera. Si parlerà di pubblicazione almeno nel 2016. L’idea è nata da un soggiorno in un hotel in Turchia. Nella storia introduco un tema per me nuovo, scoperto grazie a un amico: la legge dell’attrazione, secondo cui il pensiero di una persona ha la forza di influenzare il corso degli eventi nella realtà. Mi sto documentando, sto facendo delle ricerche. Non è una cosa semplice, ma estremamente intrigante. 

Grazie, Jury, e buon lavoro!

Grazie a te, Chiara.

venerdì 11 aprile 2014

RECENSIONE: "Angelo del Fango", di Giulia Martani


TITOLO: Angelo del Fango
AUTORE: Giulia Martani
EDITORE: Il Rio
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IL MIO VOTO: 3,5 su 5


LA MIA RECENSIONE:

La prima riflessione che ho fatto dopo qualche decina di pagine del romanzo riguardava i due protagonisti, Angelo ed Eleonora. Le loro vicende occupano capitoli alterni del libro e si collocano in momenti temporali diversi a cavallo tra il 2010 e il 2012. Ciò che mi ha colpito è come nel loro approccio alla vita, nelle loro relazioni famigliari e sociali (amici, scuola, tempo libero, lavoro), ricordino i protagonisti de “La solitudine dei numeri primi”.
Sono ragazzi diversi, riflessivi, staccati dal contesto “marcio”, per così dire, del mondo contemporaneo. Angelo ha una situazione famigliare pessima, il padre è un mezzo sbandato e la madre se la fa con un algerino che la sfrutta. Eleonora è, più o meno direttamente, vittima della pressione dei suoi genitori che la vogliono (e la credono) una studentessa modello dagli ottimi risultati. Angelo è un idealista, mostra di avere dei valori – ad esempio quando rifiuta il privé al night club per il suo compleanno – e l’espressione massima della sua predisposizione verso il prossimo sta nella decisione di entrare nella protezione civile. Eleonora crede nell’amicizia, nelle persone e nell’amore, ma inanella una delusione dietro l’altra e sprofonda in un baratro apparentemente senza fondo.
Insisto molto sui protagonisti perché sono il fulcro del romanzo. Approcciandomi al testo, complice anche qualche presentazione dell’autrice a cui ho partecipato, ero convinto fosse una storia ambientata nei giorni del terremoto modenese. In realtà ho poi scoperto come la tragedia non sia che l’apice negativo della spirale di disavventure e “batoste” psicologiche di cui sono vittima i protagonisti, ed Eleonora in particolare. In tal senso, il dramma si configura come evento purificatore, risolutore, simbolo del crollo di un’esistenza fatta di tristezza e dell’inizio di una nuova vita.
Stilisticamente, il romanzo è ben scritto, con un linguaggio colloquiale sia nella narrazione che nei dialoghi. Questi ultimi, in certi casi, sono poco “giovani”, nel senso che in due o tre occasioni il protagonista di turno parla usando termini e una struttura della frase da libro stampato, più che da conversazione di tutti i giorni. Altra piccola osservazione riguarda alcuni passaggi molto accelerati. Ad esempio, quando Eleonora decide di andare a convivere con un ragazzo conosciuto da poco, la sua decisione di abbandonare l’appartamento delle amiche e trasferirsi da lui è liquidata in un paio di righe, così come brevissimo è il resoconto dei mesi trascorsi con il nuovo compagno. Capisco che una certa sintesi fosse dovuta, considerata la costruzione del romanzo (i salti temporali, come dicevo, sono ampi da un capitolo all’altro), ma una analisi più approfondita di certe dinamiche avrebbe aggiunto materiale interessante.

In conclusione, voglio suggerire a chi leggerà il romanzo di interpretarlo in questo senso: una porta aperta su due storie di giovani, un quadretto che dipinge le dinamiche di due ventenni diversi dalla massa e che indugia sulle difficoltà che la loro diversità porta con sé. Il messaggio di fondo – non troppo criptico, a dire il vero – è proprio legato alla necessità di non arrendersi, né quando si tratta di portare avanti le proprie idee (Angelo) né quando si tratta di reagire a una vita che riserva solo delusioni (Eleonora). Una lettura veloce e piacevole che tuttavia accende qualche riflessione nel lettore e riesce, nel finale, a strappare una mezza lacrima.