sabato 19 aprile 2014

Chiara Daina intervista Jury Livorati


"Non esiste il bianco o il nero, il buono o il cattivo: la realtà è grigia, gli uomini hanno lati positivi e negativi": Jury Livorati sintetizza così il messaggio racchiuso nella sua trilogia fantasy, ambientata in un regno teocratico immaginario chiamato Alethya. Il primo volume dal titolo “Il ritorno di Beynul” (edizioni Zeroundici) è uscito nel 2013. Il prossimo sarà pubblicato a settembre e il terzo è già pronto per il 2015. 

Nella saga non ci sono né vincitori né vinti. Un escamotage per imparare a stare coi piedi per terra nonostante la dimensione del fantasy? 

Sì. Non prendo una posizione nella storia, non voglio dire al lettore chi ha ragione e chi ha torto, cosa è giusto o sbagliato. Perché la verità nella vita sta sempre in mezzo. Ci sono tanta avventura, molti colpi di scena e continui feedback. Non amo la narrazione troppo lineare.

Il Regno è governato da un ordine religioso autoritario che obbliga il popolo, povero, a fare delle offerte settimanali di cibo e merci per il sostentamento dei suoi membri. Ma parte dei doni viene rivenduta al mercato e il popolo è ingannato. Il movimento d’opposizione è rappresentato dai Tecnici, persone con poteri soprannaturali, che però vogliono sconfiggere la tirannia dei Religiosi ricorrendo alla violenza. C’è un richiamo all'attualità politica dell’Italia?

In parte, anche se il romanzo è stato scritto tra il 2012 e il 2013, nella misura in cui intendo mettere in discussione le strutture gerarchiche e le prese di posizione assolute del monoteismo e della casta politica e l’atteggiamento impotente delle persone, che accettano senza farsi troppe domande.

Archiviata la trilogia, a gennaio ti sei messo a scrivere un racconto (che per il momento tieni nel cassetto) di genere horror, il tuo preferito?

Beh, è risaputo che l’autore a me più caro è Stephen King, il Maestro dell’horror. Ho iniziato a leggere i suoi libri all'età di 11 anni, il primo è stato “Il gioco di Gerald”. Negli ultimi anni, invece, mi sono avvicinato ad altri autori, in particolare: James Joyce, Edgar Allan Poe e Tolkien. Ma la vena horror mi condizionerà sempre e, a parte questo racconto lungo ("Peterson Amusement Park"), ho diversi nuovi progetti per il futuro. 

Ti definisci un tipo ottimista.

Uno dei miei pregi è l’ottimismo, sì. Non lo sono sempre stato, ma adesso la mia vita è orientata alla positività. C'è del buono in tutto e in tutti e io mi focalizzo su quello. 

Difetti?

Sono parecchio testardo, ci rimango male se le cose non vanno come avrei voluto. In presenza di altre persone sono schivo, almeno nelle prime fasi, forse per un residuo dell'insicurezza che ha dominato la mia prima adolescenza. 

Si dice che se non hai sofferto abbastanza non puoi diventare un artista, nel tuo caso uno scrittore. Sei d’accordo?

Credo di sì. Io ho iniziato a scrivere a 13 anni proprio per sfogare un certo senso di insoddisfazione e solitudine: scrivevo poesie e ho tenuto un diario per tre anni, lo aggiornavo tutti i santi giorni: usavo la biro verde se la giornata era andata bene, quella rossa se era andata male, nera per quella normale e blu (gioia immensa) per la prima fidanzatina. Comunque fino a 16 anni sono stato una persona abbastanza triste, solitaria, pessimista; non uscivo quasi mai di casa e vedevo grigio ovunque.

Come ne sei uscito?

Un giorno mi hanno invitato al gruppo teatrale dell’oratorio e a fare l’animatore per il Grest, due esperienze che hanno rivoluzionato la mia vita: mi sono fatto nuovi amici, cosa che non avrei mai pensato considerato il mio carattere schivo. Qualche anno dopo ho incontrato Francesca, che poi è diventata mia moglie, e lei mi ha trasmesso l'ottimismo che oggi guida le mie scelte. Insieme abbiamo avuto due figli, Alessandro e Asia, e ho scoperto che la vita è ancora più bella: oggi, anche se volessi essere triste per scrivere pagine più intense, non riuscirei. Ho imparato a vedere in ogni situazione il bicchiere mezzo pieno.  

Tu hai solo 28 anni, già sposato, padre di due bambini, una laurea in Biotecnologie, un lavoro nel settore logistico di un’industria tessile del tuo paese, Viadana. Nella tua vita la scrittura cosa rappresenta?

All'inizio era un’esperienza catartica, come dicevo. Dopo le recenti pubblicazioni si è trasformata in un divertimento, in una necessità di evasione quasi ludica: non vedo l’ora di scrivere appena i bambini vanno a letto, in passato lo facevo anche al mattino presto prima di andare al lavoro (quando ero commesso). Scrivere mi fa bene alla salute, letteralmente. Se non lo faccio provo quasi un senso di colpa, come se stessi sprecando un'opportunità. La scrittura rimane comunque un hobby. Se dovesse diventare qualcosa di più serio non mi dispiacerebbe, ma la vivo con leggerezza prendendo le cose come vengono.

Da dove prendi l’ispirazione?

Dagli eventi quotidiani: una persona che vedo, un suono, un colore. Mi chiedo il perché di quello che sto vivendo e così nascono le mie storie. Non vado in cerca di fonti di ispirazione, le incontro. Anche nel sogno, uno in particolare, del 2004: ero circondato da persone verdognole e io non riuscivo a muovermi, come Roberto ne "L'eredità". 

Nel 2004 nasce l’idea del tuo secondo romanzo, “L’Eredità” (edizioni Zerounoundici), uscito nel 2012. Il plot è molto articolato, niente è casuale e dietro agli eventi c’è una trama che risale al 1400, un destino già scritto che si trasmette di madre in figlia. Come nascono i personaggi del libro?

Alcuni dai cliché: la mamma del protagonista Gisella, sessantenne, incarna la tipica vecchietta premurosa, ficcanaso, che ha un rapporto difficile con la nuora. Altri da persone che ho conosciuto, senza imitarle completamente ma fondendo alcuni aspetti in una figura nuova: per esempio, il protagonista assomiglia un po’ al mio professore di inglese quando spiegava in classe e un po’ a me, per la capacità di pensare positivo anche nei momenti brutti, di andare a fondo nelle cose, di essere legatissimo alla moglie e ai figli.

Qual è stato il personaggio più difficile da costruire?

Quello della suocera, la madre di Simona: lei conosce tutta la storia, è consapevole del destino a cui le donne della sua famiglia sono condannate, ma deve tenere il segreto. Almeno fino alla fine.

Ai giovani che vogliono dedicarsi alla scrittura cosa suggerisci?

Di non partire pensando di fare lo scrittore di professione da subito. È scrivendo che si impara a scrivere. A 18 anni ho composto una quindicina di racconti, che ho autopubblicato, di genere psycho-horror: storie di paura, paranoia e pazzia. Riguardano me, il mio territorio, le persone che conosco. Li rileggo oggi e li trovo infantili. Piano piano ho capito che i personaggi vanno scavati, limati, ripuliti dal superfluo, trasformati dal prevedibile e dall'autobiografico. È un esercizio anche personale: per evitare di mettere me stesso al centro, devo sapere bene chi sono. 
Allo stesso modo sto lavorando sullo stile, per snellirlo e rendere la lettura incalzante, veloce, in risposta ad alcune critiche ricevute con "L'eredità". Anche questo suggerisco a chi scrive: farlo sempre con la consapevolezza di essere incompleti.

Altri libri in cantiere?

Sì. Sto scrivendo un thriller, "L'evoluzione della specie", e ormai sono a metà dell’opera. Si parlerà di pubblicazione almeno nel 2016. L’idea è nata da un soggiorno in un hotel in Turchia. Nella storia introduco un tema per me nuovo, scoperto grazie a un amico: la legge dell’attrazione, secondo cui il pensiero di una persona ha la forza di influenzare il corso degli eventi nella realtà. Mi sto documentando, sto facendo delle ricerche. Non è una cosa semplice, ma estremamente intrigante. 

Grazie, Jury, e buon lavoro!

Grazie a te, Chiara.

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