mercoledì 27 agosto 2014

RECENSIONE: "A proposito di Dafne", di Monia Colianni


TITOLO: A proposito di Dafne
AUTORE: Monia Colianni
EDITORE: 0111 Edizioni
LINK ACQUISTO: Amazon

IL MIO VOTO: 3,5 su 5


LA MIA RECENSIONE:



Dopo aver terminato questo romanzo in appena un weekend, mi sono chiesto che cosa mi abbia spinto a divorarlo con una voracità che non ricordavo da anni. A prima vista, infatti, la trama rientra in un genere molto lontano dai miei gusti di lettore, e di maschio in generale. Ancora oggi, a qualche giorno di distanza, mentre stendo questa recensione non ho una risposta precisa e proverò pertanto a esporre quel che mi è piaciuto e che, nel suo insieme, deve aver prodotto l’attrazione e l’apprezzamento per il libro.



La storia, se vogliamo, non è nuova: lei cerca l’amore, trova il “principe azzurro”, qualcosa va storto e spezza l’idillio, salvo poi arrivare a un lieto fine nel quale il legame si ripristina ed è ancor più forte. Ma la differenza sta nel condimento, o meglio nella declinazione di una trama all’apparenza classica. Perché lei, Dafne, non è la tipica principessina, ma è una ragazza ribelle, decisa, che nello stesso tempo sogna dolcemente l’amore vero. Lui, Roberto o Bob, è “bello e maledetto”, un uomo affascinante e attraente che all’inizio pare tanto premuroso quanto passionale, ma che ben presto si rivelerà una persona disturbata e con molti e intricati segreti. Intorno ai due protagonisti, un microcosmo in continua evoluzione, che va dall’arrivismo e dall’assenza di scrupoli dei pubblicitari amici di Bob all’amicizia e alla capacità di ascolto di Moris, datore di lavoro di Dafne; dal rapporto difficile coi genitori di entrambi, alle “triangolazioni” amorose che sono uno dei motori della storia. Il tutto innaffiato da una spruzzata di mistero, quello che avvolge il passato di Bob e che Dafne svelerà un pezzo per volta, non in modo indolore.



La narrazione procede con la massima scorrevolezza. Lo stile è giovane, informale, e rispecchia appieno il carattere di Dafne che, pur essendo protagonista in terza persona, rappresenta per quasi tutto il romanzo i nostri occhi sul suo mondo. Ho apprezzato molto il fatto che, a dispetto delle tematiche trattate e dell’essere donna della protagonista, i passi introspettivi siano ben dosati e ben calibrati, senza risultare eccessivamente pesanti e ridondanti. A favorire il ritmo c’è poi un intelligente ricorso a espedienti narrativi che rimescolano le carte, aprendo sempre una nuova strada ed evitando così una stagnazione della storia (penso all’entrata in scena dell’ex di Bob, alla malattia improvvisa della madre di Moris, alla scoperta della parentela francese di Dafne, e così via). Una serie di escamotage usati intelligentemente, dicevo, perché non appaiono come meri strumenti narrativi, ma si inseriscono nelle vicende in modo naturale e plausibile.



Elencati i pregi, l’autrice e “sorella” di casa editrice non se la prenderà se segnalo qualche piccolo difetto. Se ho imparato qualcosa dalle recensioni ai miei libri, infatti, è che i complimenti riempiono il cuore di orgoglio, ma non aiutano a fare passi avanti.



Ecco allora che segnalo, come prima cosa, la presenza di alcuni dialoghi poco naturali, poco quotidiani, ma piuttosto adatti a un film o, peggio, a una telenovela. Avrei gradito, in alcuni casi, una maggiore personalizzazione del discorso diretto, anche perché i protagonisti (e Dafne in particolare) si prestavano bene a una simile operazione. 

Altra pecca, a mio modestissimo parere, è l’eccessiva rapidità con cui vengono stravolte alcune situazioni. Leggiamo di Dafne e Bob che chiacchierano amabilmente dopo aver fatto sesso (evento che ricorre con una frequenza invidiabile…) e tutto d’un tratto una parola, un’espressione, fanno precipitare il dialogo in un violento litigio. Ricordo almeno tre o quattro passi come questo, nei quali magari avrei consigliato all’autrice di sfumare più dolcemente dall’amore all’odio, o viceversa.
Infine, e questa è la segnalazione più seria, ho riscontrato un certo disturbo nella tendenza, che diventa più abbondante soprattutto nella seconda metà del romanzo, a passare dal punto di vista di Dafne a quello di chi le sta intorno. Ritengo che il romanzo funzioni a meraviglia proprio perché, come dicevo sopra, per il 95% del tempo noi vediamo con gli occhi di Dafne e ragioniamo con la sua mente. Eppure ci sono alcuni momenti in cui l’autrice ci porta nella testa di Bob, piuttosto che di Cassandra, o Moris, o altri personaggi secondari: ecco, in questi momenti, che non trovo fondamentali ai fini del romanzo, credo che la storia perda qualcosa. 

Per chiudere, ribadisco quanto questo libro abbia saputo prima catturarmi, poi incuriosirmi, infine stupirmi. Mi dispiace averlo letto con enorme ritardo dopo la sua uscita, ma credo che farò più di un pensiero all’acquisto del nuovo lavoro di Monia!

sabato 9 agosto 2014

Una storia...

C'era una volta una piccola comunità che viveva sperduta in una grande foresta. Al centro del villaggio sorgeva un'alta statua di legno che raffigurava un uomo con le braccia tese verso il cielo. Gli abitanti lo chiamavano Keaf e la sua raffigurazione era l'oggetto più importante per tutta la comunità. Nessuno sapeva con precisione chi l'avesse costruita né quando, ma tutti erano concordi nell'affermare che la sua presenza fosse fondamentale per la sicurezza del villaggio. Non solo, ma la torreggiante riproduzione di Keaf ricordava a tutti il messaggio che egli aveva portato e che era stato trasmesso di generazione in generazione: un messaggio che parlava di collaborazione, di fratellanza, di altruismo, uniche linee guida capaci di garantire la sopravvivenza della comunità.

Ebbene, negli anni di cui vogliamo parlare viveva nel villaggio un giovane, Polt, che era noto per il suo rifiuto di credere a qualunque benefico influsso sulla comunità da parte di Keaf. Polt viveva esattamente come gli altri, collaborando per il bene comune del villaggio, eppure era guardato con distacco e diffidenza. Non riconosceva l'importanza di Keaf, dicevano, e da un momento all'altro quella scelta avrebbe potuto portarlo ad agire in modo contrario ai principi che egli trasmetteva e quindi in modo dannoso per la comunità.

Un giorno un violento temporale si abbatté sul villaggio. I venti indomabili e la tempesta distrussero diverse abitazioni, ma quel che sarebbe rimasto per sempre nella memoria degli abitanti fu il fulmine che colpì direttamente la statua di Keaf, incendiandone la base. Inutili furono i tentativi di domare le fiamme: il fuoco arse la statua di legno e la fece crollare in un turbinio di cenere e scintille.

Sin dal giorno seguente nel villaggio calò una profonda depressione, un senso di sfiducia e rassegnazione che non aveva precedenti nella storia della comunità. Non solo la gente rifiutava l'idea di ricostruire la statua tanto importante - cosa che sarebbe risultata a suo modo blasfema, dal momento che qualcuno credeva che essa non fosse opera dell'uomo, ma di Keaf stesso - ma addirittura nessuno trovava la forza e la voglia di impegnarsi per ripristinare le abitazioni del villaggio. 

L'unica eccezione fu il giovane Polt. Non erano passate nemmeno due ore dalla fine del temporale, che già aveva iniziato a liberare il terreno intorno alla sua casa e a quella dei vicini. Mentre lavorava, incitava a gran voce quanti stavano intorno ad osservare, spaesati e confusi come se non capissero che cosa stesse facendo e come se non sapessero nemmeno bene chi e dove fossero. Persino i genitori di Polt, affacciati alla finestra di casa, scuotevano la testa e lo pregavano di fermarsi, di placare la sua operosità, ché tanto Keaf li aveva abbandonati e non ne valeva più la pena. 

Ma Polt non si fermò e solo la ferma opposizione degli altri abitanti del villaggio riuscì a trattenerlo dal sistemare anche le loro abitazioni. Il giovane non si perse comunque d'animo e continuò, nei giorni seguenti, a vivere e lavorare per la comunità come aveva sempre fatto. Comunità che, a quanto pareva, era crollata assieme alla statua di Keaf, dal momento che la gente, ancora apparentemente stordita, aveva cominciato a pensare più all'interesse personale che a quello collettivo, a lavorare per il proprio sostentamento e a non curarsi delle necessità dei vicini. 

Qualcuno non resse e abbandonò il villaggio, senza salutare, col favore delle tenebre; qualcun altro si tolse addirittura la vita. Solo Polt rimase l'uomo che era. Solo, ora era un po' più felice.