martedì 30 dicembre 2014

L'anno della disillusione

Nel mio personale riepilogo dell'anno che stasera va a concludersi, la parola che meglio lo descrive deriva da un commento ricevuto dal mio amico Massimiliano a margine della prima (e al momento unica) presentazione de "Il Segreto di Malun". «Mi sei piaciuto», mi ha detto Max. «Mi sei sembrato più sicuro di te rispetto agli altri anni e anche un po'... come dire... disilluso.»

Disillusione. Questo termine riassume quanto ho sperimentato, o almeno quanto ha sperimentato lo scrittore sommerso che è mio alter ego, nel 2014. L'anno era partito con le migliori prospettive, forte delle recensioni più che positive ricevute da "Il Ritorno di Beynul" e nella convinzione che le vendite limitate ne avrebbero tratto un'accelerazione. Rileggevo proprio le bozze de "Il Segreto di Malun", in quel periodo, ed ero certo che l'attesa per il secondo romanzo, unita all'ulteriore salto di qualità che in esso mi sembrava riscontrare, avrebbero determinato un successo della trilogia. A tutto ciò si unisca il fatto che avevo da poco finito la scrittura del terzo volume, che avevo praticamente concluso il racconto lungo "Peterson Amusement Park" e che le idee per il nuovo romanzo spingevano per essere messe su carta quanto prima.

Ebbene, poi è successo quel che in parte sapete. Da una parte le vendite de "Il Ritorno di Beynul" ristagnavano: nemmeno la possibilità di scaricare gratuitamente l'invito alla lettura di 100 pagine sembrava dare una spinta. Nuove recensioni non se ne vedevano, nemmeno da due o tre blog che avevano dichiarato di aver letto il libro e di averlo gradito. I dati di vendita e di download ufficiali rilasciati dalla casa editrice non hanno fatto che confermare come il primo volume della saga di Alethya, sebbene oggettivamente migliore sotto tutti gli aspetti rispetto a "L'eredità", non arrivasse neanche alla metà dei livelli raggiunti da "L'eredità".

In questo contesto si è inserito quel particolare momento, di cui ho già parlato altrove, che mi ha tenuto lontano dalla scrittura per diverse settimane, per non dire mesi, e che ha trovato una modesta ripresa solo da ottobre in avanti. Peccato che, sempre in ottobre, sia finalmente uscito "Il Segreto di Malun", le cui vendite sono partite col piede sbagliato sin dalla presentazione ufficiale a Viadana e dal consueto e fidato bacino di utenza rappresentato da amici e conoscenti. Premesse che, unite al fatto che i blog a cui mi affidavo di solito sembrano non avere spazio, o tempo, o voglia per leggere e recensire questo secondo volume, sembra condurlo verso una sorte ancor più triste del suo predecessore. 

Disillusione, dunque, su più livelli. Prima di tutto per una definitiva presa di coscienza non tanto del valore che la mia scrittura possa avere oggi o in futuro, ma della percezione che di essa hanno le persone che mi stanno intorno e con le quali, volente o nolente, devo fare i conti (ho sempre detto che avrei scritto sempre e comunque, indipendentemente dalla pubblicazione, dalle vendite, dai guadagni, e così sarà... ma è la frequenza con cui mi metterò al computer che verrà regolata dalla risposta di un eventuale pubblico e, al momento, non vedo alcuna fretta). 

In secondo luogo per una rivalutazione del valore che davo al fatto di aver pubblicato con un editore vero e proprio: al di là dell'orgoglio personale e della certezza di essere stato valutato e scelto, mi accorgo di come diversi autori self-published riscuotano maggior successo pur avendo, senza dubbio, minori perdite in termini economici. Ne ho avuto una riprova io stesso con l'autopubblicazione, poche settimane fa, di "Tra Palco e Realtà", il quale, sebbene siano da considerare altre variabili in gioco, ha già venduto più de "Il Segreto di Malun", forte di un prezzo di copertina accattivante e senza gravare troppo sulle mie perdite.

E terzo, per l'appunto, per la odiata ma inevitabile considerazione che devo fare a livello economico, con un investimento, definiamolo così, che di anno in anno aumenta di valore ma che porta sempre meno frutti. Non sono un AAP, come sapete, ma con una famiglia da mantenere non posso lasciare che la mia passione mi sottragga troppe risorse. Mi chiedo dunque se non valga la pena fermarsi qualche anno, risparmiare il costo derivante dall'acquisto di copie personali per la rivendita e dall'organizzazione di presentazioni e utilizzare quel denaro per cercarmi un agente e provare a fare il vero salto.

Riflessioni e valutazioni che accompagneranno il mio 2015, per il quale auguro a tutti i migliori risultati. Me compreso, se non vi dispiace!

lunedì 22 dicembre 2014

Sul sonno e su una vita più felice

Lo scorso sabato mattina mi è suonata la sveglia alle sette, come quando vado al lavoro, per portare mio figlio a scuola. Quel giorno toccava a mia moglie accompagnarlo, quindi, dopo averlo salutato, ho ripreso a dormire fino alle nove. Il giorno dopo eravamo tutti a casa, nessuna sveglia ci ha disturbato e mi sono svegliato sempre intorno alle nove. A parità di orario di risveglio, però, domenica mi sentivo meno riposato e, in generale, meno soddisfatto. Perché?

L’unica differenza tra le due mattine era, ovviamente, la breve interruzione della sveglia. Che cosa, dunque, poteva aver agito sul mio umore e sul mio fisico nei pochi minuti in cui mio figlio e mia moglie si alzavano per andare a scuola? L’episodio era analogo a quelle occasioni in cui ci si sveglia per caso nel cuore della notte e, consultato l’orario, si scopre di avere ancora a disposizione qualche ora di sonno. In effetti, la sensazione che si prova nell’istante in cui questa consapevolezza si palesa è rinvigorente, appagante, corroborante, quasi più del sonno in sé.

Non c’è alcun dubbio, dunque, che riposare a lungo dia meno soddisfazione del riposare rendendosi conto di farlo. E solo la paura di doversi alzare, seguita dalla scoperta di poter rimandare, porta a questa presa di coscienza. In altre parole, il raggiungimento di uno stato gioioso comporta il passaggio per il malessere, il disappunto, che sono il suo esatto opposto. In tutto questo io vedo la metafora e la sintesi di una vita davvero piena e felice.

Troppo spesso ci lamentiamo di ciò che di brutto ci accade. Abbiamo da ridire sulle disavventure, sulle tragedie, sulle prove che la vita ci sottopone, sulla monotonia e sulla noia di certi periodi, sulla mancata realizzazione dei nostri progetti, sulle persone che la pensano diversamente da noi. Ma come sarebbe la nostra vita senza questi termini di confronto negativi, senza queste “sveglie” che interrompono momentaneamente il nostro sonno?

Ipotizziamo di vivere un’esistenza senza alti e bassi, sempre al top, circondati da persone che la pensano come noi e contribuiscono solo al nostro benessere. Ci verrebbe da pensare che saremmo sempre perfettamente felici, ma ciò non equivale a dire che non lo saremmo mai? Che cosa ci darebbe il punto di riferimento, il livello zero per impostare il metro di giudizio? Seguendo la metafora iniziale, che cosa ci informerebbe, se mancasse la fastidiosa sveglia, che stiamo dormendo beatamente?

Per quanto mi riguarda, ho imparato anni fa, quando in qualche modo ho voluto voltare pagina rispetto al pessimismo che ha caratterizzato la mia adolescenza, a prendere i problemi e gli episodi negativi come opportunità. Ne ho tratto sicurezza e gioia di vivere e queste mi hanno portato profonde soddisfazioni. Ma la strada è sempre lunga e costellata di ostacoli e le esperienze ci arricchiscono e plasmano di continuo, perciò ben vengano riconferme come quella che, dal nulla, è emersa grazie al semplice suono di una sveglia!

mercoledì 17 dicembre 2014

Nemo Scriptor in Patria

Se mi concedete il paragone poco culturale (d’altronde, dovreste conoscermi), nell’ultimo film di Checco Zalone, “Sole a catinelle”, il protagonista viene assunto come venditore porta a porta di aspirapolvere e, nel giro di poco tempo, riesce a diventare venditore dell’anno. Il tutto grazie alle vendite concluse con i suoi parenti (al punto che, saturato quel mercato, il suo rendimento cala fino a farlo licenziare, ma questo è superfluo per il post attuale).

Il concetto può essere trasferito nella mia esperienza, e più in generale in quella degli scrittori emergenti (sommersi) e di tutti gli aspiranti artisti. Perché, quando produci qualcosa (un libro, un CD, un quadro, una serie di fotografie) e non sei nessuno, la prima cosa che ti viene in mente è che la tua nutrita schiera di amici, conoscenti, parenti di vario grado sarà il pubblico certo di cui hai bisogno per il lancio iniziale. Da loro partirà poi un passaparola dal devastante effetto cascata, perché se ogni persona a te vicina parlerà di te e della tua creazione anche a un solo conoscente tu raddoppierai il tuo pubblico. Senza contare che, soprattutto nei piccoli paesi, la voce della nascita di una nuova, potenziale stella si spargerà rapidamente e attrarrà decine di curiosi...

Beh, sapete?, in questa onirica prospettiva io mi sono fermato, sin dal primo libro (che è stato quello di maggior successo, pur con tutti i suoi difetti), al primo passaggio: amici e parenti. Il passaparola non è esistito e quel poco che c’è stato l’ho favorito io stesso con post su Facebook al limite dello spam. L’effetto sorpresa-nel-piccolo-paese non l’ho percepito nemmeno per un secondo, se non per un trafiletto sul giornale locale. Non solo, ma con la pubblicazione del secondo e terzo romanzo ho assistito a un calo assoluto dell’interesse (non parlo solo di vendite, ovviamente, ma di partecipazione), per cui sembra che io abbia molti meno amici e molti meno parenti...

Qual è la causa di questo? Non posso esimermi dal pormi questa domanda: la risposta ad essa, infatti, è legata a doppio filo alla continuazione del mio impegno letterario. A che pro sacrificare tempo, denaro, aspettative, se il riscontro tende inevitabilmente a zero? Forse dovrei modificare la rotta e, pur non abbandonando la mia passione ed il mio sogno, per motivi che ho già elencato più e più volte, dovrei limitarmi a tenerla per me stesso, o a non divulgarla fino al giorno, se mai esisterà, in cui troverò un editore capace di darmi maggiore visibilità.

Qual è la causa?, dicevo. A volte ho pensato che si trattasse di me, ma in tutti gli altri ambiti della mia vita godo di ottime relazioni e di una buona reputazione tra la gente, quindi lo escluderei. Potrebbe trattarsi della mia scrittura, e ci sta. Potrebbe trattarsi della assuefazione: il primo romanzo rappresentava la novità, ma ora uno all’anno diventa routinario e poco attraente.

Oppure, ed è quello che reputo più probabile e che in parte riassume le tre precedenti possibilità, si tratta dell’idea per cui, parafrasando un noto detto, Nemo Scriptor in Patria. La frase è nata una sera in cui assistevo, a Viadana, alla presentazione del libro di una ragazza di Mantova, scrittrice emergente anche lei, che parlava davanti a quasi cento persone. La settimana prima, in quella stessa sala, io avevo parlato a forse una ventina e la settimana prima ancora un’altra collega viadanese aveva avuto la mia stessa sorte.

In breve, penso che sia difficile, per chi ti conosce, credere che tu possa avere un valore artistico, a meno che questo non sia suggellato da un riconoscimento, una menzione, una citazione a livello superiore (stampa, pubblicità, televisione). Tanto più se la tua arte è di difficile e lenta fruizione, come nel caso della scrittura. Non si tratta di un giudizio sulla persona, ma sul suo lato artistico: non temo che la gente a me vicina mi trovi poco interessante, ma che non ritenga di dover impegnare un paio d’ore ed eventualmente dieci euro per qualcosa che ho scritto. Magari in quelle due ore sfoglia altri libri in libreria e compra quello di uno sconosciuto, ma pubblicato da Mondadori e ben impilato vicino alla cassa.

Io sono diverso dalle persone di cui sto parlando? Probabilmente, anzi sicuramente no. Siamo tutti uguali. Tant’è che non sto esprimendo critiche, ma riportando valutazioni e riflessioni che spero possano migliorare il mio modo di pormi, in primis, e delineare il percorso che dovrò seguire nei prossimi anni.

lunedì 8 dicembre 2014

RECENSIONE: "Oltre i confini del mondo", di Ornella Nalon


TITOLO: Oltre i confini del mondo
AUTORE: Ornella Nalon
EDITORE: 0111 Edizioni
LINK ACQUISTO: Amazon

LA MIA RECENSIONE


In un tempo relativamente breve, è la terza volta che mi imbatto in un romanzo incentrato sul mondo africano. Fortunatamente, le interpretazioni che di questo tema vengono offerte sono diverse, e parlando di Oltre i confini del mondo direi che in realtà l'Africa non fa che da sfondo a una storia che vuole trasmettere un chiaro messaggio, suscitare una precisa serie di riflessioni.

Parliamo di un breve romanzo che racconta le storie di due donne, legate tra loro nonostante le distanze geografiche e culturali. Da una parte una donna africana, che conosciamo attraverso il racconto che lei stessa fa della propria vita, per permetterne la trascrizione ad opera dell'altra protagonista, Eleonora. Questa, una signora sulla sessantina, ci viene a sua volta presentata attraverso la narrazione dell'autrice, che ne dipinge la storia ricorrendo al flashback. Due biografie, dunque, l'una sotto forma di discorso diretto, l'altra raccontata.

Anche la mia valutazione del libro deve seguire questa divisione. Perché da un lato ho trovato alcune novità nelle tematiche che emergono dal racconto della donna africana. Un certo rifiuto dei tratti più anacronistici della cultura indigena africana, il desiderio di emancipazione e di uguaglianza, il sogno di una vita migliore per la figlia fanno di questa protagonista un personaggio non scontato e suscitano riflessioni molto attuali. Dall'altra parte, nella narrazione delle vicende che riguardano Eleonora, ho riscontrato qualche stereotipo, qualche soluzione prevedibile, che nella mia valutazione globale hanno inevitabilmente abbassato il gradimento.

La narrazione procede in modo scorrevole, con un ritmo abbastanza sostenuto favorito dall'abbondanza di discorso diretto, dalla mancata suddivisione in capitoli e dall'intreccio tra le due storie. Non ci sono grandi descrizioni, né un forte approfondimento psicologico delle protagoniste, costruite più dal punto di vista di "ciò che è loro successo", rispetto a "ciò che loro sono". Non manca tuttavia la possibilità di dedurre il carattere, i pensieri, le aspettative dell'una e dell'altra dal modo in cui agiscono. 

Un'altra segnalazione riguarda lo stile, omogeneo per tutto il libro. Considerando che quasi metà del romanzo corrisponde a un racconto diretto della protagonista africana, però, mi sarei aspettato una maggiore personalizzazione del testo in queste parti, per differenziare il modo di parlare della donna dal modo di raccontare dell'autrice. Anche questa soluzione avrebbe favorito una caratterizzazione del personaggio e l'avrebbe reso più completo, oltre a separare anche stilisticamente i due livelli presenti nel libro.

martedì 2 dicembre 2014

RECENSIONE: "Biglietto di Terza Classe", di Silvia Pattarini




TITOLO: Biglietto di Terza Classe
AUTORE: Silvia Pattarini
EDITORE: 0111 Edizioni
LINK ACQUISTO: IBS

LA MIA RECENSIONE


Biglietto di Terza Classe è un romanzo estremamente pregno di contenuti. Il titolo è abbastanza fuorviante, nel senso che, almeno per quanto mi riguarda, sembra rimandare a una storia incentrata sul racconto di viaggio di emigranti italiani verso gli Stati Uniti. Le prime pagine confermano questa previsione, inquadrando la storia appunto all'inizio del ventesimo secolo, con le protagoniste impegnate nel viaggio della speranza che dalla misera vita di campagna le condurrà alla "Merica", la terra delle opportunità. Ma procedendo con la lettura scopriamo che le vicende vanno ben oltre la semplice traversata dell'oceano e che abbracciano un arco di tempo molto esteso e ricco, come dicevo all'inizio, di sviluppi interessanti.

Lo stile della narrazione è uno degli aspetti che mi ha colpito maggiormente, e in senso positivo. Per tutte le 180 pagine del romanzo l'impressione, se me lo concedete, è quella di trovarsi seduti davanti al caminetto e di ascoltare la storia raccontata dall'autrice, allo stesso modo in cui potrebbe accadere con una bella favola. Il linguaggio è molto informale, colloquiale, quotidiano, il che risponde certamente alla necessità di coerenza rispetto allo status sociale dei protagonisti, ma porta anche il beneficio di cui sopra. Perché questa leggerezza stilistica, questa semplicità sintattica e lessicale, favoriscono l'interesse verso la storia, senza appesantirla, anzi accendendo il desiderio di proseguire per sentire che cosa succede. 

Alla ricchezza di contenuti corrisponde inoltre una ricchezza di tematiche non indifferente. L'autrice ha, tra i suoi obiettivi, il chiaro intento di portare il lettore a riflettere. Passiamo dalla condizione misera dei migranti italiani al "razzismo" che essi devono subire nel Nuovo Mondo, dallo sfruttamento dei lavoratori alla piaga della mafia, allo sfruttamento minorile e femminile. Si possono individuare chiaramente diverse fasi nel romanzo, corrispondenti a momenti della vita della protagonista che si intrecciano con fasi storiche descritte proprio attraverso i suoi occhi.

Appare evidente anche il ricco e accurato lavoro di documentazione che l'autrice deve aver sostenuto. Senza offesa per la stessa, la cui età anagrafica ovviamente non è compatibile con quanto sto per affermare, si ha quasi l'impressione che descriva luoghi ed episodi come se li avesse vissuti di persona. In alcuni momenti sono arrivato ad immedesimarmi con i protagonisti a tal punto da provare angoscia, la stessa che deve colpire un qualunque migrante nel momento in cui raggiunge una nuova terra nella quale non conosce nessuno, e senza capire una parola della lingua, per di più.

Concludo con tre piccole osservazioni critiche. La prima riguarda l'introduzione di riferimenti storici: in alcuni casi l'autrice non ha saputo amalgamarli bene con la storia e si è lasciata trascinare nel tunnel della semplice esposizione di fatti alla "libro-di-storia", con uno stile che si staccava dal resto della narrazione e che risultava molto più freddo e asettico. Altra pecca è l'eccessiva facilità con cui si cambia il punto di vista della narrazione: soprattutto verso la fine del romanzo, entriamo da un attimo all'altro nella testa di personaggi diversi dalla protagonista e questo, a mio parere, è un aspetto che disturba e che andrebbe migliorato. Infine, con riferimento al linguaggio colloquiale di cui parlavo all'inizio. capita in due o tre occasioni che questo scivoli in costruzioni grammaticali a dir poco traballanti. Una, in particolare, mi ha fatto storcere il naso, ma sono certo che si sia trattato di una svista in fase di editing e non ho quindi modificato il mio parere positivo sul romanzo nel suo complesso.

In sintesi, Biglietto di Terza Classe è un romanzo che regala molto più di ciò che, dalla copertina e dal titolo, promette. Una lettura che consiglio, anche solo per trasferirsi per qualche ora in un mondo e in vicende del passato recente, ricostruite abilmente dall'autrice.