giovedì 27 marzo 2014

RECENSIONE: "You God", di Annarita Petrino


TITOLO: You God
AUTORE: Annarita Petrino
EDITORE: Edizioni Il Papavero
LINK ACQUISTO: IBS

IL MIO VOTO: 2 su 5


LA MIA RECENSIONE:

Ho ricevuto questo libro dall'autrice stessa, che ha tenuto a precisare che il testo aveva un'impostazione marcatamente filo-cattolica. La mia risposta è stata che ciò non rappresentava un problema e, dopo la lettura, confermo parzialmente quanto sostenuto. Vediamo perché.
You God è una raccolta di quattro racconti, due dei quali molto brevi. Non svelerò le trame, perché il rischio è di anticipare tutto quel che viene narrato. Basti sapere che si tratta di racconti di fantascienza, ambientati in anni futuri in cui l'ingegneria genetica, la scienza medica e la robotica sono campi sviluppati e che giocano un ruolo importante nella vita delle persone. In ogni racconto, però, i progressi della scienza e/o l'evoluzione culturale dell'umanità sono messi in discussione, mostrandone i limiti e gli effetti negativi. In questo contesto si inserisce poi il tema religioso, con la rivendicazione più o meno marcata della religione cristiana e della fede in Dio come vero rifugio, vera soluzione, vero punto di riferimento imprescindibile.
Ho avuto modo di leggere altre recensioni che fanno di questa tematica l'unico metro di giudizio per il libro. In quest'ottica, ovviamente, si rischia di giudicare l'autrice o le sue idee religiose, più che ciò che ha scritto. È innegabile che con le sue scelte la Petrino si sia sottoposta a questo tipo di critiche (e a tal proposito le avrei suggerito di provare a trasmettere gli stessi messaggi ma in modo più velato, meno diretto e palese), ma esistono altri aspetti del testo da prendere in considerazione.
Perciò il mio voto non entusiasta non è legato alla fede in Dio che trasuda dalle pagine di You God, quanto alla poca attenzione riservata all'approfondimento di personaggi e situazioni. Spesso ho avuto l'impressione che la voglia di dire qualcosa, di dare un insegnamento, prevalesse sul gusto per la narrazione e la "creazione letteraria". Il contesto sociale nel quale si svolge il primo racconto, ad esempio, è interessantissimo, ma risulta marginale, così come i protagonisti che sono mere pedine, fantocci privi di profondità asserviti alla trasmissione della "morale". Se il gusto narrativo avesse prevalso sulla volontà di mandare un messaggio, o se i due aspetti fossero stati sullo stesso piano, il testo ne avrebbe tratto giovamento, senza togliere spazio alle idee dell’autrice, ma anzi dando loro più credibilità.

In conclusione, ho trovato nel libro una buona capacità lessicale e stilistica e le premesse di una ottima capacità creativa, ma non sfruttate appieno.  

domenica 23 marzo 2014

Mi logora

Mi logora
un'assassina serpe m'insidia
m'ammanta
la mente
e il lamento
dell'anima divisa
è uno squarcio alla mia vita
che più sola non basta
per un esser futuro senz'accenti.

venerdì 21 marzo 2014

RECENSIONE: "Requiem per la ligera", di Omar Gatti


TITOLO: Requiem per la ligera
AUTORE: Omar Gatti
EDITORE: La Ponga Edizioni
LINK ACQUISTO: Amazon

IL MIO VOTO: 5 su 5


LA MIA RECENSIONE:

È il secondo libro di questo autore che ho l’occasione di leggere e, a differenza del primo, che mi ha lasciato qualche dubbio, devo ammettere che “Requiem per la ligera” è qualcosa di eccezionale. L’ho letto nei ritagli di tempo libero, ma con la costante tentazione di concedermi altri cinque minuti per procedere con un nuovo capitolo.
La storia, molto sinteticamente, racconta dell’ultimo atto della ligera milanese, una sorta di gruppo malavitoso con a capo il “Sciresa”. La narrazione in prima persona è portata avanti dal protagonista, il “Cinghei”, che accompagna il lettore in quella che ben presto si configura come una complessa guerra tra famiglie mafiose (siciliani, calabresi, sardi, veneti e marsigliesi)... almeno in apparenza. I colpi di scena, non ultimo quello della soluzione finale, sono vari e interessanti.
Il racconto procede secondo i canoni propri del genere noir, del quale l’autore è grande estimatore. L’ambientazione milanese è resa magistralmente, sia attraverso i movimenti dei protagonisti tra strade ed edifici di Milano che attraverso le numerose infiltrazioni dialettali nel testo e nei dialoghi. Il romanzo, le cui vicende si svolgono nei primi anni 50, si direbbe scritto da una persona che ha vissuto realmente in quell’epoca, salvo poi scoprire che l’autore è classe 1985, il che è un ulteriore elemento a favore della qualità del testo e della padronanza della materia trattata.
A colpire è la rapidità con cui tutto avviene, senza inutili giri di parole e descrizioni eccessive. Il ritmo è sempre incalzante. La storia parte con un misterioso attentato al “Sciresa” e da lì, con un effetto cascata dagli esiti sempre più dirompenti (i capitoli finali sono pregni, crudi, scioccanti), siamo trascinati in quella che parte come vendetta ma che si rivelerà, alla fine, più intricata di quanto si potesse immaginare. Non trovo nulla da osservare nelle scelte dell’autore, che ha dosato gli episodi senza creare picchi di interesse e passaggi di transizione meno accattivanti, ma mantenendo l’attenzione sempre viva, pagina dopo pagina, sino all’ultima riga.

Un romanzo che consiglio vivamente di leggere sia agli amanti del noir che a chi non lo conosce. Come il sottoscritto, che però è risultato entusiasta.

martedì 18 marzo 2014

Dipingere la realtà con la fantasia

Avete presente quella sensazione suscitata da una nevicata che colora di bianco i tetti e le strade del paese? Quell’appagante senso di novità, di bellezza, di magia che tutto a un tratto deriva dall’osservazione di luoghi noti ma trasformati dal candore della neve? La stessa casa del vicino, che vediamo tutti i giorni andando al lavoro e che solitamente è emblema di noia, ripetitività, quotidianità, d’improvviso è una meravigliosa casetta delle favole, immersa in un mare bianco brillante, fonte di ispirazione e appagamento.

Pensate anche all’esplosione della primavera. Qualche settimana prima il mondo è immerso nel grigio dell’inverno, avvolto dalla nebbia e appesantito dall’umidità. L’erba nei prati è congelata e morente, i rami degli alberi spogli sembrano artigli minacciosi, il cielo è un deprimente manto uniforme. Poi arrivano i primi giorni di sole ed è come se una mano invisibile stendesse un arcobaleno di colori sulle tele della realtà. L’ambiente non cambia: strade, case, persone sono le stesse, gli alberi sono ancora momentaneamente spogli, l’erba mostra ancora i segni della sofferenza invernale. Eppure abbiamo l’impressione di muoverci in un universo parallelo, ignoto, in grado di trasmetterci sensazioni nuove e quindi di infonderci felicità.

Spesso sosteniamo che sia il bel tempo a metterci il buonumore. Io ritengo che invece sia la luce diversa sotto cui il bel tempo pone il nostro mondo “normale”. In questo senso si spiega l’analogia delle emozioni suscitate da una romantica nevicata e da una giornata di sole.

Ma perché aspettare che siano gli eventi atmosferici, o una festa di carnevale, o una manifestazione che decori le strade del nostro paese a darci un’infusione di energia positiva? Perché non diventare noi stessi, con la nostra mente, artefici della trasformazione della realtà che ci circonda in qualcosa di più gradevole? Perché non aggrapparci anche al più piccolo dei dettagli per rivoltare l’andamento di una giornata che, altrimenti, sarebbe solo una delle tante?

La nostra mente ci mette a disposizione uno strumento di incredibile potenza: la fantasia, la creatività. Nessuno ci vieta di alzarci al mattino e decidere di approcciarci al mondo come fosse un luogo nuovo e diverso dal giorno precedente e dal giorno che verrà. Nessuno ci vieta di considerare il lavoro e le faccende quotidiane come una base piatta e incolore su cui innestare i dettagli variopinti della nostra immaginazione o dei nostri desideri.

Se al mattino, appena svegli, siamo affranti per la pessima giornata lavorativa che ci attende, ci basta magari pensare alla pizza con gli amici che ci aspetta la sera, o aprire la finestra e notare come il sole sia già alto nel cielo o abbia smesso di piovere. Se non ci piace il luogo in cui viviamo, siamo nauseati dal vedere sempre le stesse persone e gli stessi edifici, perché non immaginare, che ne so, che quel luogo assuma le sembianze di un villaggio medievale o di una città del Far West?

Cicognara (MN), il mio paesino, ricalca la struttura di una città del Far West
In tutto questo abbiamo molto, moltissimo da imparare dai bambini. Io non ho mai fatto mistero, nemmeno nella scelta del mio soprannome (beachild), della mia vicinanza alle filosofie o alle “poetiche” di chi sostiene che il bambino che è in noi non deve mai venire meno, ma essere una guida nell’approccio all’esistenza. Da quando sono genitore questa concezione, anziché affievolirsi per l’assunzione di responsabilità paterna, si è rafforzata. Grazie anche all’opportunità fornita dai miei figli per spogliarmi sempre più dei panni di adulto ed entrare nei loro mondi di fantasia, o contribuire a crearli, o interpretare la realtà con i loro occhi, o meravigliarmi anche delle più piccole cose.


Dipingere la realtà con la fantasia è esattamente come dipingere un disegno in bianco e nero: corrisponde a generare emozione. Dal momento che siamo i primi destinatari di quelle emozioni, perché non concederci almeno il tempo per provare? Potremmo scoprire che i risultati ci sono davvero e compiere un ulteriore passo lungo il percorso verso la felicità.

martedì 11 marzo 2014

Sulla Musica

Quando avevo quindici anni, ai tempi in cui cominciavo a frequentare assiduamente l’oratorio (con annessi e connessi, vedi esperienze come animatore del grest e dell’ACR, primi passi nel gruppo teatrale, campi invernali ed estivi in montagna, messe e incontri di preghiera come se non ci fosse un domani), imparai da autodidatta a suonare la chitarra. Non diventai un professionista, ma in breve riuscii a farmi inserire tra i “musicisti” del coretto dei giovani in chiesa, nonché a intrattenere assieme ad altri amici alcune serate musicali davanti al fuoco. In realtà, una sera arrivai anche a salire su un palco con una chitarra elettrica e ad abbozzare un breve e semplice assolo, ma questa è un’altra storia.

L’idea di mettermi davanti al libro di musica delle scuole medie e di segarmi le dita fino a imparare l’esecuzione di tutti gli accordi nacque dal dolore. Non un dolore fisico, ma il dolore psicologico derivante dalla consapevolezza di procedere su una strada parallela rispetto alla musica.

Sono stonato. Molto stonato. Non al livello più basso dell’ipotetica scala degli stonati, ma comunque abbastanza da creare fastidio se provo a cantare.

Ecco, vedete, all’oratorio (prima) e anche fuori da quel contesto (poi) sentivo gli amici cantare. Ne avevo alcuni che erano davvero bravi, tanto bravi da vincere concorsi, da farti venire la pelle d’oca, da meritarsi la standing ovation di un pubblico di centinaia di persone. Tanto bravi da farmi piangere quando rivedevo le registrazioni dei primi musical del gruppo di cui sono parte. Tanto bravi, in sintesi, da insegnarmi quanto la musica, e principalmente nello strumento della voce umana, sia la forma di espressione artistica che più direttamente raggiunge e accarezza le corde dell’anima. Se mi concedete una similitudine biologica, la musica è come l’ATP, energia direttamente spendibile.

Il dolore, la frustrazione, il senso di incompletezza che mi coglieva in quelle occasioni e che ancora oggi non mi dà tregua derivano proprio dalla impossibilità di accedere a questa forma di arte che è la musica. Un concetto che può essere compreso fino in fondo se si ricorda che trasmettere emozioni agli altri, per me, è uno degli obiettivi principali. Scrivo per questo, in fondo, e ho cominciato a scrivere proprio perché colpito dal modo in cui un testo scritto potesse emozionare.

La scrittura, appunto, potrebbe essere intesa come la mia forma di espressione per supplire alle mancanze canore. Mentre scrivo, io stesso la intendo in questo modo e doso le scelte stilistiche e contenutistiche, le descrizioni e le vicende dei personaggi, tenendo a mente questo obiettivo. Ma alla fine mi rendo conto di come l’immediatezza della musica, unita alla sua profondità, non riuscirà mai ad essere eguagliata da un libro. Ci potranno andare vicino una poesia, la quale comunque è meno digeribile e accessibile, e un quadro, che però non riesce a trasmettere le stesse emozioni, ma di sicuro non un romanzo, nemmeno il capolavoro del più grande autore di tutti i tempi.


La lettura richiede tempo, predisposizione, comprensione, concentrazione. Richiede immedesimazione, memoria, talvolta esperienza diretta di ciò che si legge. La musica è immediata, veloce, leggera, evocativa, pregna di significati. Là dove la lettura chiede uno sforzo al lettore, la musica si dona completamente ai suoi ascoltatori e così si configura come pura emozione. La lettura parla alla testa, la musica si rivolge al cuore.     

lunedì 10 marzo 2014

RECENSIONE: "Brianza Night Blues", di Omar Gatti


TITOLO: Brianza Night Blues
AUTORE: Omar Gatti
EDITORE: La Ponga Edizioni
LINK ACQUISTO: Amazon

IL MIO VOTO: 2 su 5


LA MIA RECENSIONE:

Il libro è una raccolta di racconti ambientati, come suggerisce il titolo, in Brianza. La posizione di rilievo riservata all'ambientazione è innegabile ed emerge di continuo, sia attraverso le descrizioni dei luoghi che ricorrendo a modi di dire, intercalari e dialettalismi tipici della zona. Si può pertanto affermare come la Brianza stessa sia il protagonista principale dell'opera, un protagonista che permea trasversalmente tutti i racconti. E l'efficacia con cui la narrazione viene legata al territorio è uno dei punti a favore del libro.
Quello che convince meno è lo stile. Sebbene la forma sia sostanzialmente corretta, con appena un paio di refusi che si possono ascrivere a sviste in fase di editing, e il testo proceda con scorrevolezza e mai appesantito più del necessario da descrizioni eccessive, dopo tre o quattro racconti emerge un problema. Il problema, nello specifico, riguarda la scarsa varietà di situazioni e di tematiche. Con l'eccezione di qualche racconto più strutturato, la maggior parte di quelli che compongono l'opera sembrano diverse declinazioni di una stessa storia. Cambia il personaggio (anche se spesso le riflessioni e le motivazioni sono sovrapponibili tra protagonisti di storie diverse), cambia la dinamica, ma la vicenda resta fondamentalmente la stessa. Così altri aspetti positivi, come un certo "cinismo" narrativo che in qualche sfaccettatura mi ha ricordato Stephen King, passano in secondo piano, soffocati dalla mancanza di novità e originalità. 
Altro difetto è la straordinaria brevità di alcuni racconti, poco più che "fotografie" che pure non stonerebbero nella struttura del libro, se però i loro protagonisti introducessero qualche elemento di unicità in più. Al contrario, queste brevissime storie sembrano prodotte dalla necessità di trascrivere un'idea, una sensazione, un'immagine, al servizio della quale si inseriscono personaggi bidimensionali appena abbozzati.
In conclusione, il mio suggerimento all'autore è di mantenere e coltivare l'approccio stilistico alla narrazione, cercando nel contempo di sviluppare e approfondire la cura dei personaggi e degli intrecci narrativi.