martedì 17 dicembre 2013

Non valgo niente

Non mi ritengo un intellettuale, quindi non valgo niente.

Non ho letto i classici e quelli che ho letto li ho trovati a volte pesanti: preferisco i romanzi d’azione, avventura e horror. Anche qualche film. Quindi non valgo niente.

Pretendo di diventare uno scrittore senza aver mai frequentato un corso di scrittura e senza avere la volontà di farlo in futuro. Quindi non valgo niente.

Adoro giocare ai videogiochi e vedo in alcuni di essi una forma d’arte. Quindi non valgo niente.

I miei cantanti preferiti sono John Denver e Katy Perry. Quindi non valgo niente.

Mi sono laureato col massimo dei voti in biologia molecolare, ma ho scelto di cercare un lavoro qualunque. Quindi non valgo niente.

Non ho l’ambizione di fare carriera, ma solo di mantenere un buon posto di lavoro e di poterlo sempre svolgere al meglio. Quindi non valgo niente.

Non ho amicizie influenti e, se anche le avessi, non le sfrutterei per i miei scopi, perché non mi piacciono i raccomandati e non voglio diventare uno di loro, per coerenza. Quindi non valgo niente.

Non ho mai votato centro-sinistra, quindi non valgo niente.

A vent’anni, anziché darmi alla pazza gioia da post-adolescenza, mi sono sposato e ho fatto figli. Quindi non valgo niente.

Ho smesso di credere nella Chiesa e nutro più di qualche dubbio anche sull’esistenza di Dio. Quindi non valgo niente.

Ma sapete una cosa? Mi sento libero.

E felice.

martedì 3 dicembre 2013

Lo strappo nel cielo di carta

«Ora senta un po, che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.»

Sebbene l’interpretazione di questo passo de “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello vada in un’altra direzione, mi è tornata alla mente proprio l’altro giorno, mentre leggevo un romanzo di qualche anno fa (non citerò titolo né autore, ma si tratta di un pezzo grosso). Leggevo, appunto, e la storia scorreva via abbastanza piacevole, forse solo un tantino prolissa, quando mi sono imbattuto in un madornale errore sfuggito all’editing. Niente di eccezionale, a ben pensarci: si trattava della ripetizione dello stesso avverbio due volte nella stessa frase. Eppure è bastata quella svista a catapultarmi fuori dalla storia e ho dovuto fare un profondo sforzo di concentrazione per rientrarvi.

Non fraintendetemi. Non sto facendo il pedante che, ora che ha pubblicato un paio di romanzi, va a cercare i peli nell’uovo. Al contrario, la riflessione che sto facendo riguarda in prima persona me e la mia produzione. D’altronde, la passione per la lettura mi ha spinto a cimentarmi con la scrittura e sarà sempre la passione per la lettura a fornirmi gli strumenti per migliorarmi. Talora per emulazione, talora per “contrapposizione”.

Ebbene, tornando a quel refuso, ho ripensato allo strappo nel cielo di carta di Pirandelliana memoria. Perché un romanzo di fiction altro non è se non un teatrino delle marionette costruito con le parole dello scrittore, che è allo stesso tempo architetto delle scenografie e autore della sceneggiatura e dei dialoghi. Il bravo scrittore, quello che vorrei diventare un giorno, è colui che, oltre a imbastire la scena, la manovra, muovendo i fili dei suoi personaggi senza far riconoscere la sua presenza al pubblico.

I casi più eclatanti in cui questo non avviene, casi di cui ho avuto qualche esperienza sia diretta e personale – rileggendo alcuni dei miei primi racconti, ad esempio – che indiretta – soprattutto partecipando al Torneo IoScrittore – riguardano veri e propri paragrafi in cui l’autore interviene con giudizi personali riferiti a quanto sta raccontando. Più che di uno strappo nel cielo, si tratta di un radicale cambio di prospettiva: l’impalcatura stessa del teatrino crolla ed eccolo lì, il burattinaio maldestro.

In altri casi, e parlo dei grandi autori (perché in fondo anche nei libri dei migliori può scappare un refuso), basta una ripetizione, un verbo mancante, una virgola al posto sbagliato, un nome errato a generare nel lettore una reazione di sicuro meno violenta, ma comunque deviante. Come nel caso che citavo all’inizio.

Perché la magia della lettura sta nel lasciarsi trascinare in un mondo parallelo che, per le ore che dedichiamo al libro, diventa unico, concreto e totalizzante. Molto più di quanto accade con un film, che ci mostra solo quel che inquadra la telecamera e che deve conquistare la nostra attenzione combattendo contro gli elementi di disturbo intorno al televisore. Con un libro, la storia non è davanti ai nostri occhi, ma prende forma e consistenza nella nostra mente, a 360 gradi, e poi ci ingloba al suo interno.

E sono proprio quelle piccole o grandi sviste di autori ed editori – e sempre più comprendo l’importanza di ripetute riletture e di un attento editing delle opere – che  attentano a questa magia, aprendo falle nel mondo che ci costruiamo e lasciando entrare spiragli di realtà. Lasciandoci spiazzati come la marionetta di Oreste.


Niente di grave, beninteso, ci sono problemi peggiori che affliggono l’umanità. Ma, almeno qui, mi piace poter parlare anche di questioni più “filosofiche”.

giovedì 14 novembre 2013

Io amo Viadana

Una delle esperienze migliori che ho vissuto quest’anno è stata la mia partecipazione alla “Terza Fiera del Libro del Territorio tra Oglio e Po”, tenutasi a Sabbioneta il 5 Maggio 2013. Sono stato cortesemente invitato a quella festa dal responsabile della Società Storica Viadanese Giuseppe Flisi, per tenere una presentazione de “L’eredità”, che è poi stato messo a bancarella assieme ad altri libri e saggi di autori della zona. La cosa bella è che a quella presentazione hanno preso parte qualcosa come dodici persone, di cui quattro erano miei famigliari e amici.

Come posso giudicare così bene una simile esperienza, dunque?

La risposta sta nel titolo di questo post. Io amo Viadana. Che, in senso lato, significa che io amo la mia terra. È difficile, credo, sentire esternazioni del genere, soprattutto in tempi recenti, dove rimanere tutta la vita nello stesso luogo (quello di nascita, peraltro) è visto quasi come un fallimento. L’Europa è ormai dietro l’angolo, l’America o l’estremo Oriente sono a poche ore di volo; con l’inglese e internet trovare lavoro fuori dall’Italia è più semplice e l’esperienza si rivela gratificante, remunerativa, qualificante (senza contare che spesso è l’unica alternativa alla disoccupazione e alla depressione da “viviamo-in-un-Paese-ridicolo”).



Eppure io, sebbene in più di un’occasione abbia manifestato un certo disgusto per le dinamiche che sviliscono l’Italia come nazione, non ho mai perso l’attaccamento alla mia terra natale, intesa proprio come Viadana e dintorni. La terra dove è nato e cresciuto mio nonno, prima di mio padre, me e mio figlio: quattro generazioni dislocate in abitazioni raggruppate nel raggio di 600-800 metri, nella piccola frazione di Cicognara.

Per questo, quando ho cominciato a scrivere, consapevole fin dal primo momento di quali potevano e dovevano essere le mie reali ambizioni, mi sono posto come obiettivo quello di donare qualcosa a quella terra a cui tanto mi sento legato. Sapevo che non sarei mai diventato uno scrittore di fama nazionale, ma nessuno poteva e potrà impedirmi di lavorare e impegnarmi per essere riconosciuto come scrittore (o pseudo-scrittore) di fama viadanese. Non a caso scelgo sempre di tenere la prima presentazione proprio a Viadana, abitudine che anche l’amico (e vicesindaco) Dario Anzola mi ha invitato a non perdere.

Non voglio ricevere onori, ma lasciare qualcosa in eredità, un segno del mio passaggio. Come stanno facendo molte altre persone o organizzazioni le quali, ognuna nel suo piccolo, rendono migliore Viadana, la fanno crescere. Mi riferisco, tra gli altri, ad artisti come Franco Mora e Pèdar; colleghi scrittori come Ivano Porpora, Michael Archetti, Roberta Marzano e, dal punto di vista storico, Luigi Cavatorta; a gruppi e associazioni culturali; e a decine di altre persone e istituzioni che potrei citare (e che potete citare voi nei commenti, se vi va).



Insomma, mi piacerebbe che, tra sessanta-settant’anni, qualche anziano al bar possa raccontare al nipotino che negli anni duemila a Viadana c’era un gran fermento culturale: chi cantava, chi dipingeva, chi scriveva. E tra questi ultimi c’era anche un certo Livorati («Ma Livorati come quelli che abitano qui a Cicognara?» chiederà il bambino. «Sì, penso fosse loro parente, anche se aveva un nome strano. Perché i Livorati han sempre vissuto qui» risponderà il nonno). L’invito alla Fiera del Libro del Territorio, con cui ho aperto il post, ha rappresentato un primo riconoscimento in questa direzione e mi ha riempito di orgoglio.

A dimostrazione che i numeri (vendite, guadagni, quantità di presentazioni e di partecipanti) non contano niente. Impegnarmi per valorizzare la mia esistenza e per lasciare qualcosa che mi leghi alla storia del mio paese, quello conta. Non esisterebbe ricompensa migliore al mio lavoro.

giovedì 31 ottobre 2013

Un racconto per Halloween

Il blog Le Recensioni di Chiara ha indetto per Halloween un simpatico contest che mi ha coinvolto, portandomi a scrivere questo brevissimo racconto che mi ha portato fuori, per un po', da Alethya. Niente di speciale, ma a me piace il finale, quindi lo posto anche qui. Ditemi la vostra!


PRIMA DELL'ALBA

Dio Santo, sono occhi quelli!
Non è un’illusione, non può essere come quando la camicia appoggiata alla sedia ti appare come una persona accucciata, perché riconosco il bianco delle pupille. Sono due punti più chiari nell’oscurità della stanza, azzurrognoli per il riflesso della spia del mio cellulare in carica. È questo particolare a farmi capire che sono reali: riflettono la luce.
Non devo muovermi. Non devo muovermi.
Il resto della forma nera che sembra fissarmi, immobile davanti al nostro letto, è indefinita, ma quegli occhi e la paura – la paura, sì, è soprattutto lei a farmi registrare i particolari, per alimentarsene – mi suggeriscono contorni umani. Bambineschi. È una figura minuta, che arriva forse all’altezza del lato inferiore dello specchio alla parete. Le spalle cadenti, le braccia abbandonate lungo i fianchi, il capo riccioluto e rigido.
Non ho il coraggio di muovere altro che gli occhi. Temo che possa accorgersi anche di quelli e pure del respiro che ha involontariamente cambiato ritmo, da quando mi sono svegliato e l’ho intravisto. Provo a rallentarlo, a inspirare ed espirare con la lentezza di chi dorme.
Le lenzuola mi sono scivolate sulle gambe, lasciando scoperto il ventre. Persino la canottiera è risalita e quel piccolo rettangolo di pelle esposta mi fa sentire vulnerabile. Mi convinco che questa figura, chiunque sia, alla fine mi attaccherà proprio in quel punto, proprio per quel punto scoperto. Vorrei, dovrei coprirmi, nascondermi sotto le lenzuola fin oltre la testa, come facevo da bambino quando avevo paura dei ladri. Ma allora lo facevo al minimo rumore, al minimo, anomalo spostamento dell’aria, quando ero ancora in tempo. Oggi no, è tardi, chi può farmi del male è già al mio cospetto e se mi muovessi sarebbe ancora peggio. Perché saprebbe che sono sveglio e mi farebbe ancor più male.
Non devo muovermi. Non devo muovermi.
Vorrei aver lasciato la porta aperta. L’orario proiettato sul soffitto – lo raggiungo a malapena spingendo gli occhi all’insù, fin quasi a rovesciarli sotto le palpebre – dice che sono le cinque passate e forse a quest’ora le primissime luci del mattino mi darebbero un contrasto migliore, mi mostrerebbero questa figura per ciò che è davvero. Forse scoprirei che sì, nonostante tutto è la solita illusione ottica, troverei una spiegazione al riflesso su quelli che mi sembrano occhi e potrei rilassarmi.
Ma la porta è chiusa e il buio profondo della stanza è rotto solo da quella minuscola lucina sul Samsung e dalla sua eco – sì, la definizione mi piace – dalla sua eco sdoppiata dagli occhi della figura. Così non posso dirmi con certezza se quello che mi sembra un braccio lo sia realmente, non posso tranquillizzarmi col pensiero che sto solo interpretando un addensamento di ombre. Non prima che la sveglia suoni, tra due ore, o che trovi il coraggio di accendere la luce.
Non devo muovermi. Non devo muovermi.
Non avrei dovuto chiamarlo bambino. Ora che l’ho fatto, non riesco a pensare che sia nulla di diverso. I bambini fanno paura. Quanto sono carini e innocenti alla luce del sole, tanto diventano terrificanti nel contesto sbagliato. Li usano un sacco nei film proprio per questo, credo. E questo è un contesto sbagliato: è la mia stanza, è notte fonda e non ho figli. Se anche li avessi, non se ne starebbero immobili, al buio, a fissarmi. 



Teresa dorme al mio fianco, tranquilla nonostante il respiro affannoso. Non aveva il raffreddore ieri sera, non ricordo. Se solo si svegliasse... è stupido, è dannatamente infantile, ma se si svegliasse spezzerebbe l’incantesimo che mi tiene in scacco. Le racconterei della mia assurda paura come farei con un incubo e rideremmo insieme prima di riprendere a dormire.
Ma Teresa dorme e io non posso affidarmi solo alla mia razionalità per sottovalutare la figura che mi osserva. L’esperienza mi suggerisce che queste cose non esistono, ma la mente è meno forte e spavalda quando scendono le tenebre. E diventa bastarda e malleabile, come la mia, che anziché mostrarmi l’assurdità del mio terrore sembra piegarsi al volere di quest’ombra davanti a me e fa riaffiorare l’unico ricordo che non serve.
Non devo muovermi. Non devo muovermi.
Quattro anni fa, ormai. Tornavo da una cena di lavoro alla quale non avevo bevuto. Scendevo dalla rampa di uscita della tangenziale e mi immettevo nella grande rotonda, quindi imboccavo la seconda uscita. Erano le tre del mattino e andavo abbastanza forte perché ero stanco e non vedevo l’ora di mettermi sotto le coperte. Abbastanza, ma non troppo forte, e con il pieno controllo delle mie facoltà. Ma la musica era alta nell’abitacolo e cantavo per tenermi sveglio.
Non so che cosa facesse in giro a quell’ora quel signore col suo nipotino. So solo che lui si chiamava Piretti e che il bambino aveva otto anni e che nessuno dei due si accorse che un’auto era in arrivo, prima di attraversare incautamente fuori dalle strisce pedonali e a ridosso dell’uscita dalla rotonda. Trovarono il vecchio senza vita a una ventina di metri, nella boscaglia, mentre il bambino smise di respirare tra le mie braccia, al centro della carreggiata. Lo sorressi fino all’ultimo, cercando di trattenere le lacrime mentre gli parlavo per tranquillizzarlo.
Mi scagionarono dopo due anni. L’accusa iniziale era di omicidio colposo, ma tutto indicava una mia totale assenza di colpa. Persino un testimone di cui non mi avvidi allora, ma che usciva dal bar poco distante e che aveva assistito all’episodio, raccontò della leggerezza del vecchio e mi fece passare dalla parte della ragione. Ma io non ho mai scagionato del tutto me stesso e ho passato inutili notti insonni a chiedermi che cosa sarebbe successo se avessi tenuto il volume della radio più basso, o se fossi andato meno veloce, o se avessi girato il volante del tanto necessario a evitare i due pedoni.
Non devo muovermi. Non devo muovermi.
Così, improvvisamente sono certo che questo ai piedi del letto sia proprio quel bambino. L’altezza è quella giusta, la corporatura anche. La rabbia che scorgo negli occhi sarebbe giustificata, sebbene in quella terribile notte li avessi visti verdi e lucidi di lacrime e comprensione e gonfi di speranza e fiducia nelle mie vuote parole e... L’ho aiutato, l’ho sorretto, l’ho accompagnato nella sua agonia: ma al volante ero io. L’ho strappato alla vita e merito il suo odio, qui e ora.
Merda! Un prurito. Proprio sotto al naso. Non resisto, non resisterò. Non proprio adesso, non posso muovermi. Cerco di resistere, ma il fastidio non passa, anzi sembra farsi sempre più insistente. Storco il naso, stringo le labbra, tutte smorfie che il bambino vedrà e ormai saprà per certo che non sto dormendo e potrà sfogare su di me il suo desiderio di vendetta e chissà...
Lo starnuto arriva, ma mentre mi abbandono allo stimolo, trovo il coraggio di allungare la mano e premo l’interruttore della luce.


Voglio vederlo in faccia, prima. 

mercoledì 16 ottobre 2013

Introduzione alla prima presentazione de "Il Ritorno di Beynul"

Viadana, 18/10/2013

Circa un anno fa eravamo in Sinagoga a presentare il mio primo romanzo edito. Alla fine vi avevo promesso, quasi come una minaccia, che ci saremmo rivisti l’anno dopo. E il fatto di essere qui stasera testimonia che ce l’ho fatta, che il sogno realizzato l’anno scorso può avere una continuità.

Non starò a parlarvi di chi sono, perché scrivo e da quando, tutti temi già trattati l’anno scorso. Cercherò di parlare di più del libro, perché è per quello che siete venuti. Ma, come premessa, vorrei raccontarvi che cosa ho scoperto durante quest’anno.

Ho scoperto, o meglio ho confermato, che il mondo dell’editoria è più che complesso. Dietro alla manciata di editori famosi ci sono centinaia di case editrici medio-piccole, ognuna delle quali pubblica decine e decine di autori. Ci sono poi molti servizi di auto-pubblicazione, di cui si servono centinaia se non migliaia di scrittori. E ci sono altre migliaia di individui che hanno un manoscritto pronto e in attesa di trovare un editore. Questo per dire che farsi largo in un settore come questo è un’impresa. Ecco perché ho imparato a definirmi non scrittore emergente, ma scrittore sommerso.

Ho scoperto che intorno a questo mondo ne ruota un altro fatto di persone che lavorano a supporto di chi scrive. Da una parte ci sono agenzie e siti pseudo-pubblicitari a pagamento, ma dall’altra molti giovani che gestiscono siti, blog, riviste messe gratuitamente a disposizione degli emergenti. Ho trovato così ragazzi e ragazze che hanno recensito il mio libro, che mi hanno intervistato, che mi hanno concesso dello spazio. E che mi hanno fatto crescere.

Ho scoperto che esistono un sacco di fiere e manifestazioni che accolgono con entusiasmo le opere degli scrittori emergenti. Ho partecipato al Buk di Modena, alla manifestazione fantasy di Pandino, mentre l’anno prossimo, oltre a queste, dovrei essere al Fantasy Books di San Giorgio di Mantova. A queste manifestazioni ho visto moltissima affluenza e la scoperta è stata sorprendente.

In altre parole sono entrato, come l’ho definita in un post del blog, in una città dei Lego. Come quelle riproducono in miniatura le sembianze delle grandi città, in ogni particolare, così l’esperienza di scrittore sommerso riproduce in piccolo la vita di un vero scrittore. Il milione di copie di Dan Brown diventano le mie 200 copie vendute, la sua intervista per il Time diventa la mia per il blog Letture al Contrario, le sue mille recensioni su IBS diventano le mie due o tre… ma, grazie al mio essere consapevole di chi sono, cosa faccio e soprattutto a quale fine, le emozioni che provo sono le stesse.

Il mio fine, appunto. Tanta gente mi ha chiesto a cosa ambisco, se scrivo per fare guadagni extra, quanto ho venduto e se ne sono soddisfatto. In breve, rispondo che scrivo perché mi piace. Banale, ma vero. Scrivere non è un mezzo, ma è il traguardo stesso. Il giorno in cui scriverò per ottenere qualcos’altro (fama, denaro) la mia scrittura sarà morta, il mio sogno infranto. Un calciatore di serie D dovrebbe rinunciare a giocare, se ama farlo, solo perché non lo ospitano in televisione o non lo coprono di milioni?

Per concludere, mi spiego più precisamente con un altro brano recente dal mio blog:

La mia scrittura è un fine. Un fine che a sua volta può avere effetti collaterali che possono chiamarsi perdita o guadagno, notorietà o cattiva reputazione, ma che non è asservito a nessuno di quelli. Se così non fosse, avrei dovuto fermarmi al primo rifiuto di un editore, alla prima recensione negativa, al primo contratto che prevedeva bassi diritti d’autore, ai primi dati di vendita.

Invece vado avanti, sempre con quell’ossimorica visione della vita: punta in alto restando in basso. Punta al 10, sapendo che forse realizzerai un 8 e che anche se gli altri lo giudicheranno un 6 non sarà un fallimento, ma un passo avanti verso quel 10. E se il 10 non arriverà mai, sarà stato comunque emozionante provarci. Viaggiare verso l’obiettivo. Tanto più se quel viaggio consiste nel fare una delle cose che ami di più nella vita.

Scrivere.

Benvenuti alla presentazione de “Il ritorno di Beynul”.

mercoledì 9 ottobre 2013

Il mio segreto

Il mio segreto, se mai ne ho uno, è nel non prendermi sul serio. Non troppo, almeno. E pur senza rinunciare alla ricerca del massimo risultato.

Sono sempre andato bene a scuola. Ho sempre ambito ai massimi risultati. Ma non ho mai trascurato altri aspetti della mia vita per perseguirli, né ho fatto di quegli obiettivi l'unico, o principale, traguardo. Ho sempre corso pensando alla medaglia d'oro, ma se durante il tragitto sentivo un'articolazione scricchiolare rallentavo e godevo del secondo o del terzo posto. Gli obiettivi non devono influenzare la vita: devono indirizzarla, ma sta a noi aggiustare il tiro se e quando vediamo che ne è giunto il momento.

Nella mia ancor breve esperienza di scrittore emergente (sommerso), sono entrato in contatto indiretto anche con molti colleghi o aspiranti tali che non la pensano come me. C'è gente che ritiene che o raggiungi il massimo, o trai il meglio da qualunque attività, o non ne vale la pena. Gente che scrive un libro e pretende che quell'opera non solo trovi un editore, ma garantisca guadagni e una seppur minima notorietà, con la motivazione che l'impegno profuso per scrivere deve essere valorizzato.

Non sono qui per criticare o imporre il mio pensiero. Semplicemente lo espongo, come altri fanno altrove.

Non è sbagliato scrivere pensando di dare vita a un capolavoro degno di un grande editore e di lauti guadagni. Sbagliato è, secondo me, ritenere che solo trovare un grande editore e lauti guadagni possa valorizzare ciò che abbiamo scritto. In altre parole, l'ambizione massima serve come linea guida, come ammonimento a dare il meglio di noi stessi in ciò che facciamo. Ma una volta portata a termine l'opera, è saggio confrontarci con la realtà e ridimensionare oggettivamente le nostre prospettive.

C’è gente che mi dice «Allora tu ambisci a diventare uno scrittore famoso», o «Quando scriverai un libro per la Mondadori...», o «Scrivi perché in questo periodo di crisi bisogna provarle tutte per guadagnare», o ancora «Quante copie hai venduto/quanto hai guadagnato?». Sono tutte domande che lasciano il tempo che trovano e che presuppongono che io scriva per qualcos’altro, che la scrittura sia un mezzo.

La mia scrittura è un fine. Un fine che a sua volta può avere effetti collaterali che possono chiamarsi perdita o guadagno, notorietà o cattiva reputazione, ma che non è asservito a nessuno di quelli. Se così non fosse, avrei dovuto fermarmi al primo rifiuto di un editore, alla prima recensione negativa, al primo contratto che prevedeva bassi diritti d’autore, ai primi dati di vendita.

Invece vado avanti, sempre con quell’ossimorica visione della vita: punta in alto restando in basso. Punta al 10, sapendo che forse realizzerai un 8 e che anche se gli altri lo giudicheranno un 6 non sarà un fallimento, ma un passo avanti verso quel 10. E se il 10 non arriverà mai, sarà stato comunque emozionante provarci. Viaggiare verso l’obiettivo. Tanto più se quel viaggio consiste nel fare una delle cose che ami di più nella vita.


Scrivere. 

lunedì 23 settembre 2013

Alethya: arriva l'app per Android!

Quando si dice provarle tutte...

Per promuovere il mio prossimo romanzo in maniera originale ho deciso di cimentarmi in un campo nuovo, cavalcando la moda del momento. Ecco a voi, allora, l'app per Android di Alethya - La Trilogia del Vaso, sviluppata dal sottoscritto. Ovviamente è gratuita, ma a differenza di altre app non potete trovarla sul Play Store di Google, bensì scaricarla direttamente dal link qui sotto: tranquilli, non si tratta di virus, è tutto sicuro e già testato su vari telefoni e tablet. 



Se volete dare un'occhiata all'app e entrare nel mondo di Alethya, seguite queste semplici istruzioni:

- sul telefono o sul tablet Android andate in IMPOSTAZIONI>APPLICAZIONI e attivate l'opzione "Origini Sconosciute";
- cliccate qui e poi su scarica;
- alla fine del download cliccate sul file e eseguite l'installazione.

Aspetto qualunque tipo di commento, se vi va. Grazie.

martedì 10 settembre 2013

La scrittura e i videogiochi

Oltre alla mia famiglia e alla lettura/scrittura, un'altra delle mie grandi passioni è quella dei videogiochi. Già vedo gli intellettuali o sedicenti tali che storcono il naso di fronte a una simile affermazione: un aspirante scrittore che si abbassa al demoniaco livello del rimbambimento videoludico. Ma io non sono un intellettuale, neanche sedicente tale, e non voglio diventarlo. Io voglio vivere bene e divertirmi e i videogiochi, oltre alla mia famiglia e alla lettura/scrittura, soddisfano questo scopo.

Ma c'è dell'altro. Nello sviluppo di un videogioco, di quelli ben strutturati almeno, trovo molte affinità con l'arte di scrivere. In fondo, oltre ai tecnici deputati alla programmazione vera e propria, ci sono persone che devono scrivere trame ben congegnate e coinvolgenti per soddisfare un pubblico di giocatori che, lo dico per esperienza, è sempre più esigente. Io pagherei per poter collaborare alla sceneggiatura di un videogame. 

Tra i numerosi generi di videogame, quello che preferisco è il cosiddetto free-roaming. Che, ad essere precisi, non è propriamente un genere, ma un'approccio, un'impostazione che può essere applicata a diversi generi. C'è la serie di Grand Theft Auto, che è un free-roaming di azione; c'è la serie di The Elder Scrolls, che è un gioco di ruolo fantasy free-roaming; c'è la serie di Assassin's Creed, che è un free-roaming di azione ma a sfondo storico. 

Quel che accomuna tutti è il concetto di poter vagare liberamente per mondi più o meno vasti e costruirsi una propria storia. Esiste una trama principale, ma è possibile ignorarla completamente e dedicarsi ad altro. Con altro intendo missioni secondarie strutturate, ma anche attività del tutto casuali. Spesso, anche io mi ritrovo a vagare senza meta, semplicemente per scoprire nuovi luoghi o vedere cosa fanno i cittadini virtuali. E parte della grandezza di questi giochi sta proprio in questo: in qualunque momento, in qualunque punto della mappa, ci sono personaggi non rilevanti ai fini della trama che fanno qualcosa. Un aspetto che contribuisce al realismo di questi videogame, dando l'impressione di muoversi in un mondo strutturato a 360°. Verosimile.

Quando ho compreso che l'idea di fondo della mia trilogia di Alethya doveva essere ambientata in un mondo alternativo ho tenuto presente questi concetti. La mia esperienza videoludica si è rivelata fondamentale per aiutarmi a creare un mondo nuovo. Mi ha suggerito, prima di tutto, che uno dei modi più efficaci per descrivere luoghi fittizi e diversi dal nostro è raccontare ciò che fanno e pensano le persone che li popolano. E mi ha poi spinto a inserire note di colore nel romanzo, includendo qualche breve capitolo in cui ci si sposta dal cuore dell'azione per andare a sentire la voce o le reazioni della gente comune, nelle case o per le strade. 

Il risultato è che Alethya è un Regno un po' più solido, non solo abbozzato. E mi auguro di essere riuscito, in questo modo, a trasmettere la certezza che intorno alle vicende principali ci sia un mondo che gira e vive e respira e pensa. Con me stesso ha funzionato: la curiosità di sapere che cosa accade oltre le montagne a nord, o nelle terre all'estremo oriente, si trasformerà probabilmente in una futura raccolta di racconti.

Tutto questo da qualche "stupido" videogioco. Vi sembra poco?

giovedì 1 agosto 2013

EAP e AAP

Non devo certo dilungarmi a parlare di EAP, un acronimo ormai noto e da cui, a meno di casi di ingenuità eccessiva o ego smisurati, qualunque aspirante scrittore dovrebbe tenersi alla larga. Eppure mi vedo costretto a tirare in ballo l’editoria a pagamento anche sul mio blog, se non altro per dire la mia sulle vicende che nei mesi scorsi hanno riguardato la mia attuale casa editrice e i cui strascichi si protraggono ancora.

In breve, anni fa la 0111 Edizioni fu accusata di pubblicare a pagamento. Accusata ingiustamente e altrettanto ingiustamente diffamata. Proprio perché essere definito EAP è denigrante per un editore onesto e ancor di più, forse, per i suoi autori. Io stesso, sebbene gli ultimi sviluppi abbiano portato a una totale smentita, mi sono trovato in imbarazzo, perché non vorrei che si accostasse il mio nome all’editoria a pagamento neanche per un secondo.

La 0111 Edizioni, dicevo, ha querelato chi l'ha accusata ingiustamente e ha ottenuto ragione. Confermo, semmai ve ne fosse bisogno, che di contributi non ne vengono richiesti e che la selezione esiste. Inviai loro anche “M@rcello” nel 2011 e fui scartato. Eppure, come se in qualche modo si fosse deciso di perseguitare questo editore, di tanto in tanto spuntano articoli di blog che criticano le condizioni contrattuali proposte dalla 0111. Basta scrivere 0111 su Google e ne troverete un paio. In sintesi, si accusa l’editore di non riconoscere i diritti all’autore se non dopo le 250 copie vendute (o le 125 vendute grazie all’impegno dell’autore stesso) e di assicurarsi il diritto di prolungare il contratto a oltranza, fino a tale obiettivo.

Allora ho capito che, mandato in pensione o quasi il mostro delle EAP, siamo entrati nell’era degli AAP. Gli autori a pagamento. La gente che scrive perché vuole guadagnare.

(L’argomento è delicato. Chissà che non cominci ad avere qualche lettore in più sul mio blog. Se non altro per ricevere degli insulti.)

Scrivere è una passione. Chiunque scrive lo fa per esprimersi, per cimentarsi in qualcosa di nuovo e grande, per emulare. A differenza di altre passioni, è impegnativa, logorante a volte, richiede tempo e solitudine. Il risultato però, se c’è, trasmette una soddisfazione che altre esperienze non riescono a dare. E questa è una prima ricompensa al nostro lavoro, una ricompensa di quelle che possiamo aspettarci e pretendere. La seconda è che qualcuno legga e apprezzi il nostro lavoro; amici, parenti o conoscenti. La terza è che un editore valuti positivamente la nostra opera, ci aiuti a migliorarla e decida di investire su di essa. Ciò porta con sé alcuni eccezionali effetti secondari che si chiamano presenza del nostro libro in alcune librerie della nostra zona, presenza del nostro libro col nostro nome su siti come IBS e Amazon, eventuali recensioni dei nostri libri da parte di perfetti sconosciuti, autorizzazione a organizzare presentazioni pubbliche in librerie o biblioteche.

Non è una ricompensa questa? Non ripaga i nostri sforzi? Non valorizza il nostro impegno?

No, evidentemente. C’è gente convinta che il proprio romanzo, magari il primo, non solo debba essere pubblicato, ma debba garantire dei guadagni. Come se l’unica gratificazione possibile, o comunque l’unica che conta, fosse quella monetaria. E allora ecco le critiche – tra l’altro ancora ingiustificate, come dimostrerò più sotto – a editori come la 0111 Edizioni che, per un motivo o per l’altro (chi siamo noi per indagare o alludere? Abbiamo mai gestito una casa editrice? Sappiamo che cosa questo comporti? Io no, quindi non parlo), non possono garantire diritti d’autore milionari. Ma ripeto: ci selezionano, ci pubblicano, ci danno valore, investono su di noi con tutti i rischi che ciò comporta…

Se riduciamo lo scrivere a un’altra, mera attività per il profitto personale significa che siamo vuoti. Vuoti e falsi. Che le emozioni che mettiamo nei nostri libri, nei personaggi delle nostre storie, sono costruite a tavolino, preconfezionate, un copia e incolla studiato nei minimi dettagli per creare un prodotto commerciale. Che mentre battiamo i tasti al computer non siamo mossi dall’ardente desiderio di creare, ma dal freddo tintinnio delle monete che speriamo di accumulare. È triste.

Non dico che il guadagno non ci debba essere, ma deve venire da solo. Eventualmente. Per quanto mi riguarda, mi basta non andare in perdita. E se un giorno, per assurdo, dovessi diventare uno scrittore di grido della Mondadori o della Nord e dovessi fare i milioni, ugualmente riterrei la scrittura un fine e non un mezzo. Non scriverei mai un romanzo perché mi chiedono di farlo, perché serve.

Per finire, due conti della serva, alla faccia di chi dice che con 0111 Edizioni non si può guadagnare. Io personalmente sono più o meno in pari, non ho problemi a dirlo, ma ho venduto poco (e questo non dipende certo dall’editore…). Chi parla di diritti d’autore non considera che 0111 permette di acquistare copie personali con sconti fino al 40%. Posto che un piccolo autore come me, uno di quelli che non raggiungerà le 250 copie, vende principalmente di persona, a presentazioni o a conoscenti, significa che quel 40% è tutto guadagnato. Se il libro costa 10€ e ne compro 50 copie, spendo 300€. Se le rivendo tutte guadagno 500€… chiunque abbia fatto la seconda elementare può trarre le proprie conclusioni. Se invece sono un autore che raggiunge le 500 o le 1000 copie, allora arriveranno anche i diritti previsti da contratto e ancora una volta i devoti al dio denaro sono soddisfatti.

Per prevenire spiacevoli incomprensioni, ricordo che comunque non esiste obbligo di acquisto neanche di una sola copia. E che tutte le clausole sono specificate in un contratto che chiunque può leggere e rifiutare anche prima di inviare il manoscritto in visione. Sarebbe poi buona cosa, in caso di rifiuto, evitare di parlare male dell’editore e quindi, indirettamente, dei suoi autori, solo perché la si pensa in modo diverso.


Se ho detto cose stupide, scusatemi. Ma sono un romantico, e un sognatore.

venerdì 26 luglio 2013

Sui sogni

Il mio primo esperimento di "poesia" era un brevissimo e banalissimo componimento intitolato "Gli incubi sono meglio dei sogni" - quello che in ambito giornalistico si definirebbe un titolo freddo. In breve, spiegavo in rima come fosse meglio svegliarsi terrorizzati dagli zombie e scoprire che non esistono, piuttosto che aprire gli occhi e dover ammettere che l'esperienza gratificante che stavamo vivendo era solo frutto dell'immaginazione.

Questa breve premessa serve a introdurre una riflessione che mi ha impegnato più volte, negli anni, e che di tanto in tanto si riaffaccia alla mia mente. Non parlo del concetto espresso da quella infantile poesia, ma di qualcosa di più profondo, e filosofico forse.

I sogni sono la nostra finestra di collegamento verso il passato e il futuro, verso altre vite che potremmo vivere, che non vivremo mai o che in qualche caso stiamo vivendo, senza averne coscienza.

Che cosa determina la nostra percezione della realtà? O meglio: che cosa ci fa comprendere che siamo vivi? Io ritengo che siano le sensazioni, ma ancor più i sentimenti che ne derivano. Capisco di essere vivo quando soffro per la perdita di qualcuno, quando un bacio mi riempie di energia positiva, quando un tramonto o una melodia mi aprono il cuore. È quel che vedo e che tocco, ma soprattutto quel che sento.

Certi sogni trasmettono sensazioni analoghe, a volte anche più intense, di quelle che sperimentiamo nella vita reale. Chi ci assicura, allora, che quella che viviamo di notte non sia una vera e propria esistenza alternativa, o una di tante, a cui abbiamo accesso solo sporadicamente, grazie alle facoltà sconosciute della nostra mente? Se esistere è provare emozioni, come sostengo, allora il sogno è una diversa forma di esistenza.

Nei due anni successivi alla morte di mio nonno l'ho sognato varie volte. In una occasione, la sera dopo il mio compleanno, rispondevo al telefono e sentivo la sua voce. Si scusava per avermi fatto gli auguri in ritardo e mi diceva che comunque era contento di vedere che le cose mi andavano bene. In un altro sogno scoprivo invece che mio nonno era accanto a me e, alzandosi, mi veniva incontro e mi abbracciava. In entrambi i casi mi svegliai appagato, felice. Non di quella felicità derivante dal dire «Ho sognato il nonno». Io avevo rivisto mio nonno, lo avevo toccato, avevo interagito con lui in quella vita alternativa a cui il sogno mi aveva permesso di accedere.

In altre vite parallele io faccio un altro lavoro, conosco altre persone, vivo in Paesi diversi. Quelle vite per me hanno la stessa consistenza di quella in cui mi trovo ora, mentre scrivo: l'unica differenza è che questa la sperimento con costanza, le altre invece si manifestano di rado e per brevi intervalli. Ma sono sufficienti ad acquisire validità, dignità, e a farmi essere contento, pieno, perché ho la certezza che grazie ad esse la mia anima può esplorare tutte le possibilità dell'esistenza. 

Uscendo ora dalla riflessione poetico-filosofica e riapprodando alla razionalità, potrei dire in coro con voi: «Dai, ma ci credi davvero o volevi riempire un post del blog?» Mi rendo conto che sono pensieri privi di fondamento, senza alcuna prova e per certi versi fantascientifici, ma sono altrettanto consapevole che ho piena libertà di crederci. 

D'altronde, miliardi di persone credono in Dio e qualcuno ha mai provato che esista? Ma la vera domanda è: se una cosa ci fa sentire meglio, è davvero necessario dimostrarne la veridicità?

giovedì 11 luglio 2013

A scuola di amore

Andreste mai a scuola di amore? 

Intendo una scuola dove vi insegnino come amare: come bisogna far battere il cuore, come bisogna provocare la sensazione di vuoto allo stomaco quando si vede la ragazza o il ragazzo dei propri sogni, come si stimola la sensazione di leggerezza dopo un suo saluto, un suo sorriso, un suo bacio. Una scuola dove vi espongano le regole a cui attenersi per innamorarsi, iniziare e continuare la vostra relazione sentimentale.

Non so voi, ma io no, non ci andrei. Mi irriterei anche con chiunque me la proponesse, a dire il vero, e sapete perché? Perché l'amore, per sua stessa definizione, non può essere assoggettato a regole. Un sentimento così profondo, così totalizzante, non può essere vissuto appieno se non lo si lascia completamente libero, senza porre freni, senza cercare di costringerlo entro i limiti di qualunque forma di razionalità. 

In una delle interviste che colleghi blogger mi hanno gentilmente concesso, ho dichiarato che «Per me scrivere è una passione e una missione personale: l’obiettivo è rendere la mia vita meno noiosa, meno piatta, meno ordinaria. [...] scrivere non deve essere un business. Scrivere deve essere come amare.» L'argomento che trattavamo era diverso, ma l'analogia con l'amore si presta al ragionamento che voglio portare avanti con questo post.

Ho sentito parlare di decine di corsi di scrittura creativa. Non ne ho mai frequentato uno, nè mai ne frequenterò, nè tanto meno asservirò la mia ideologia personale al profitto e accetterò di tenerne uno in futuro, se mai qualcuno me lo chiedesse. A dire il vero, non mi sono mai neanche interessato ai temi che possano essere trattati in un corso del genere, e tutto ciò potrà essere usato contro di me per accusarmi di parlare senza esperienza, senza cognizione di causa.

Il fatto è che l'idea stessa che qualcun altro, chiunque altro, voglia insegnare le regole della scrittura mi fa storcere il naso. Le uniche regole che esistono sono quelle grammaticali, e da quelle non si scappa, ma c'è già la scuola per questo. Tutto il resto deve derivare dal singolo aspirante scrittore, dal suo bagaglio culturale, dalla sua esperienza come lettore, dal messaggio che vuole trasmettere. Senza regole prestabilite. Altrimenti avremmo centinaia di libri identici, nei quali cambia la storia ma dove non si sente l'individualità stilistica dell'autore.

I giudici saranno i lettori, ma valuteranno secondo il loro gusto personale e non secondo l'adesione a regole preconfezionate. Allo stesso modo in cui la nostra amata non ricambierà il nostro amore perché le abbiamo regalato rose rosse e l'abbiamo portata a cena, come nei film, ma perché siamo noi stessi. È vero, potremmo anche fingere di essere qualcun altro, negare noi stessi, conformarci, e prenderci la bionda avvenente invece della ragazza acqua e sapone. 


Ma saremmo davvero felici?

martedì 25 giugno 2013

Al via il progetto TasteMyBook

Festeggio le prime 1000 visite al mio misero blog con un nuovo post promozionale. Proprio ieri è stata inserita la prima voce sul nuovo sito TasteMyBlog, ideato e gestito dal sottoscritto. Un'idea nata venerdì scorso, al mattino, e che ha preso forma nel weekend, per poi partire in quarta già ieri.


Il blog nasce da una constatazione e con un fine. La constatazione è che gestire un blog nel tentativo di vendere i propri libri e di parlare di se stessi è noioso, deprimente a volte, e non porta alcun risultato. Tutti scriviamo di noi stessi e non leggiamo degli altri. Siamo migliaia di negozi senza un cliente. Molto meglio, allora, impegnarsi per promuovere i libri di colleghi, per parlare di loro. Se si mette in moto il meccanismo, automaticamente gli effetti benefici arriveranno anche per me. 

Fermo restando che il fine non è questo. 

Il fine è divertirmi, assecondare una mia grande passione e fare, fare, fare. Perché a stare fermo non riesco, la vita è troppo preziosa e corta per perdere tempo. Per non provare a fare questo, e anche quest'altro, senza sosta.

Ci sono molti altri blog che offrono servizi per emergenti. Di molti ho usufruito, come potete vedere nella sezione news, ma per quanto ne so nessuno è come TasteMyBook. Nel senso che l'idea, in sè, è nuova e originale e trae spunto dall'esperienza del Torneo Letterario Io Scrittore, dove si leggono e commentano incipit di romanzi di altri, mettendo a giudizio anche il proprio. TasteMyBook funziona un po' nello stesso modo, ma gli autori possono far giudicare qualunque brano tratto dai loro libri.

Non ho molto altro da dire, ho già scritto tutto dall'altra parte. La speranza è che l'idea venga premiata e che possa portare giovamento ai miei colleghi. 

Allora, cosa aspettate? Andate qui!

venerdì 31 maggio 2013

La città di Lego



Un mio amico, quand'ero bambino, aveva riempito un'intera stanza con una città in miniatura fatta di Lego. Io ero estasiato e sono certo che nel mondo ci sarà chi ha fatto ancora di meglio, dando vita a un piccolo universo fatto di omini dalla testa gialla e rotante e dalle mani a uncino. Il bello di quelle costruzioni è che, se sono sufficientemente complesse e curate, le guardi dall'alto e ti sembra di ammirare la nostra realtà in piccolo.

Quando la Zerounoundici mi ha proposto di pubblicare il mio romanzo "L'eredità", in realtà mi ha aperto le porte a uno di questi micro-universi, quello della piccola e media editoria in particolare. Non potevo saperlo, all'inizio, ma me ne sono reso conto strada facendo. E il paragone con la città dei Lego, che calza a pennello, è nato durante l'ultima presentazione del libro a Sabbioneta, anche grazie alla mia relatrice ufficiale Monica Martelli (che, chissà perchè, mi stimola sempre trovate come questa).

Prima di pubblicare ho dovuto muovermi con un piccolo editor che mi ha seguito nella sistemazione del romanzo. Poi ho cominciato, con amici, a cercare piccoli luoghi adatti a un piccolo pubblico per una piccola presentazione. Col tempo, seguendo l'esempio di altri emergenti, ho contattato piccoli blog che realizzano piccole interviste e piccole recensioni per piccoli autori come me. Ho conosciuto altri piccoli colleghi (senza offesa) e abbiamo instaurato piccole relazioni di scambio di opinioni e di strategie. Ho proposto il mio libro in conto vendita a piccole librerie. Ho partecipato a piccole fiere della letteratura, realizzando piccole vendite. Ho ottenuto piccole soddisfazioni.

Ma sapete qual è il bello? Che io non sono fuori da questo sistema, come potrebbe essere un osservatore dall'alto (diciamo un grande autore di una grande casa editrice? Diciamo un detrattore, che ritiene quello di scrive tempo perso, a meno di non diventare famoso e plurimilionario? Diciamo uno scrittore che non riesce a pubblicare e sfoga la sua frustrazione verso colleghi leggermente più fortunati, o meritevoli?), ma ne faccio parte. E, secondo la teoria della relatività (?), tutti quei "piccolo" per me non esistono. Per me è tutto vero, tutto grande, tutto da sogno.

Mi sono ritrovato in un mondo che riproduce, in miniatura, le dinamiche della grande editoria. E se le proporzioni sono ridotte, lo stesso non si può dire per le emozioni che ne derivano. Non sto dicendo che mi sento un grande scrittore pubblicato da un grande editore, non lo dirò mai. Ma mi sento realizzato e stimolato ad andare avanti, senza peraltro avere sulle spalle la responsabilità di dover gestire qualcosa di più grande di me.

Scrivere per me si sta trasformando da hobby a secondo lavoro. Il tempo libero lo dedico a cercare fiere, interviste, siti che recensiscono; a preparare locandine, volantini; a contattare librerie o biblioteche. Quando non scrivo e non leggo, ovviamente. 

E quando non gioco ai Lego coi miei figli...

martedì 30 aprile 2013

Il buon esempio

La creatività e l'intraprendenza dei singoli, in tutti i campi (artistico, economico, filosofico, sociale), si scontra spesso con la tendenza, più o meno marcata, a considerarsi unici, migliori, superiori. Non voglio muovere accuse a nessuno in particolare, perciò porterò ad esempio la mia esperienza, nella quale però credo si possano riconoscere in molti.

Nel 2007 mi sono iscritto a YouTube e ho cominciato a pubblicare brevi video comici, a volte demenziali, intervallati di tanto in tanto da altri in cui disegnavo personaggi Disney. Nel giro di un anno mi sono costruito un discreto pubblico, ma quello che voglio dire è che, inevitabilmente, pensavo che i miei video avessero qualcosa in più degli altri dello stesso genere. Per questo chiedevo commenti, iscrizioni, apprezzamenti e mi meravigliavo quando ne ricevevo pochi, come se in qualche modo fossero dovuti. Quello a cui non pensavo, però, era che io stesso, quando guardavo video di altri, di rado mettevo un "Mi piace" o commentavo positivamente.

Altro esempio. Nel 2008 ho autopubblicato una raccolta di racconti con Lulu. Preparo il mio bel manoscritto, impagino, scelgo la copertina, pubblico e... Fine. Nessuna vendita. Nessun contatto. Nessuna richiesta. Ma come?, dico. Ho scritto un libro, eccolo, è online, prendetelo. La versione digitale costa solo 3€. Eppure io non ho mai sfogliato le pagine del sito alla ricerca di libri altrui, neanche per leggere le trame, neanche per guardare le copertine. Aspettavo che qualcuno fosse magnanimo con me, riconoscente verso il mio lavoro come se fosse dovuto per qualche legge di equilibrio universale, ma io non mi aprivo agli altri.

È passato qualche anno e in questo caso il tempo mi ha reso più maturo. Mi ha aiutato a comprendere dove sbagliavo, dove sbagliamo in molti. Pretendiamo, ma non diamo. Lo sperimento soprattutto nella mia attività da pseudo-scrittore, ma potrei estendere il ragionamento ad altri campi.

Da qualche tempo ho deciso di cambiare rotta. Di dare il buon esempio, o almeno di sentirmi in pace con me stesso. La prima manifestazione concreta è l'appoggio ai miei colleghi scrittori sommersi, ogni volta che posso: un commento su Facebook a qualche loro post, un "Mi piace" sulle pagine dei loro romanzi, una condivisione. In secondo luogo, ho iniziato a interessarmi agli stessi romanzi di altri emergenti: come posso pretendere che cresca l'interesse verso questo sottobosco schiacciato dalla grande editoria, se io per primo, che ne faccio parte, lo ignoro? 

Allora ecco che a inizio anno nella mia libreria compaiono "La piccola equilibrista" di Stefano Vignati (0111 Edizioni, 2011) e "Primus" di Massimo Valentini (Lettere Animate, 2012). Entrambi acquistati dopo giudizi positivi letti su blog dedicati. Il primo l'ho terminato giusto ieri e sono rimasto più che soddisfatto, anche perché, è giusto ammetterlo, entrare nelle storie di giovani come me ha un fascino tutto diverso, un'intimità che più difficilmente si instaura con i grandi autori letti da tutti.

C'era una pubblicità, anni fa, dove a un uomo che faceva un piccolo acquisto tutti urlavano il loro grande grazie, perché col suo gesto faceva girare l'economia. Io non voglio ringraziamenti, ma mi auguro, nel mio piccolo, di aver contribuito, e di poter continuare a farlo in futuro, a dare energia a un mondo meraviglioso come quello della piccola e media editoria.

E voi? Avete letto qualcosa di sconosciuto ma interessante di recente? Consigli? 

sabato 13 aprile 2013

Cerimonia di premiazione del Memorial Miriam Sermoneta

Oggi ho visto gente di una certa età che crede ancora nei sogni, nella forza della scrittura, nella magia di emozionare gli altri con la parola scritta. Oggi ho scoperto un mondo fatto di amore per la vita e per il prossimo. Oggi ho sperimentato il dolore della nostalgia e la gioia del ricordare qualcuno che non c'è più. Oggi mi sono emozionato nel sentir leggere e interpretare un mio racconto così bene da non riconoscerlo quasi più come mio. Oggi ho gioito nel ricevere un riconoscimento per un mio lavoro. Oggi ho pianto con il racconto vincitore, talmente bello da meritare anche il secondo e terzo posto, e sono sincero.

Allora grazie a Giovanni Gentile e a tutti gli organizzatori del Memorial Sermoneta. Arrivederci all'anno prossimo... spero! 





L'autore, con linguaggio misurato e vivace, regala fotogrammi di un'intera vita. L'introspezione è condotta in modo delicato, con toni nostalgici ma mai mielosi o scadenti nell'eccesso di nostalgia. Ogni personaggio è descritto con essenzialità, come essenziale ed asciutta è tutta l'impalcatura del racconto, rendendolo piacevole alla lettura e regalando immagini simili a pennellate ora più decise, ora più sfumate, date con i colori del ricordo e di quella dolce malinconia che sopisce il dolore (Anna Maria Funari).





domenica 10 marzo 2013

La situazione...

D'accordo, scrivo proprio poco sul blog, ma non dite che non vi avevo avvisato. Ma qual è la situazione attuale?

Un mesetto fa sono usciti i primi dati di vendita de "L'eredità" e la mia soddisfazione è stata massima: non aspettatevi grandi cose, si parla di 101 copie vendute complessivamente, ma prima di firmare il contratto mi ero prefissato un traguardo di 100 copie e posso ritenerlo raggiunto. A breve ho comunque la possibilità di arrotondare la cifra, con due presentazioni già confermate e una in forse. Senza contare l'imminente partecipazione al BukModena 2013 e al Pandino Festival. Vedremo.

Per quest'anno, oltre alla pubblicazione de "Il Ritorno di Beynul" (sì, ecco svelato il titolo del primo volume della saga di Alethya) mi sono posto l'obiettivo di partecipare e possibilmente vincere qualche concorso letterario nazionale per racconti. Non per i soldi, ovviamente, ma per dare visibilità al mio nome e, indirettamente, ai miei romanzi. E per verificare l'efficacia o meno del mio stile, la qualità della mia scrittura: non scordiamo mai che questa mia esperienza è un viaggio e che lungo la strada posso capire che è meglio cambiare direzione, tornare indietro o fermarsi del tutto. Ebbene, al momento sono più che contento, perché il primo concorso a cui ho partecipato, il Memoriale Miriam Sermoneta, mi ha visto arrivare secondo con racconto "13x18", con premiazione nientepopodimeno che in Campidoglio a Roma. Sono in ballo con altri concorsi, come potete vedere nella sezione news, quindi incrociamo le dita.

Sono poi in attesa di una recensione a cui do una certa importanza e che potrete vedere a giorni, credo, sul blog Pensieri D'inchiostro. Curioso di misurare ancora una volta "L'eredità", che ha ricevuto finora pareri altalenanti sui vari blog e store online. 

Infine, come dicevo, tra fine maggio e inizio giugno saprò se la 0111 accetterà il nuovo romanzo, se il viaggio continuerà. In quel caso, spero di avervi ancora al mio fianco...

venerdì 8 febbraio 2013

Non riesco più a leggere


Non riesco più a leggere. 

Non nel vero senso della frase, fortunatamente gli insegnamenti delle maestre alle elementari sono ancora efficaci. Non voglio neanche dire che non ho più tempo per leggere romanzi, sebbene rispetto ai miei anni d’oro io abbia dovuto registrare una flessione in negativo tendente allo zero. Figli, lavoro, impegni mi hanno assorbito al 90%. La scrittura si è presa il restante 10% e allora tanti saluti a tutti. Grazie al cielo, nell’ultimo periodo sono riuscito a riprendere in mano un libro e a ritagliarmi uno spazio per la lettura, approfittando di una pausa tra la fine di un manoscritto e l’inizio del prossimo (a fatica, devo ammetterlo, perché ero e sono in fervente fase creativa).

Proprio la nuova lettura, che nello specifico è “Silenzio Assoluto” di Frank Schatzig (se si scrive così) mi ha messo di fronte a questa nuova verità. Non so più leggere. Non so più leggere come un tempo, facendolo per il gusto di farlo, abbandonandomi all’autore e alle sue creazioni con fiducia, lasciandomi traportare per mano nella storia, accanto ai suoi personaggi.

Sarà che ho cominciato a scrivere a mia volta con regolarità. Sarà che ho imparato a leggere, rileggere e rileggere ancora i miei manoscritti alla caccia di errori, ripetizioni, incongruenze. Sarà che le recensioni a miei libri e a libri di altri esordienti che ho letto mi hanno aperto gli occhi verso un certo tipo di imprecisioni da evitare.

Fatto sta che leggo il romanzo e, anziché lasciarmi assorbire completamente, percepisco una parte di me che, con piena razionalità e un certo meccanicismo, sonda ogni paragrafo, ogni frase, alla ricerca di errori. In altre parole, leggo non come un lettore, ma come un correttore di bozze. Mi saltano all’occhio ripetizioni, refusi, dialoghi poco convincenti, situazioni paradossali. Non mi chiedo se la storia mi sia piaciuta, ma se l’autore l’abbia scritta bene.

Non so se sia un bene o un male. Di certo indica che sto sviluppando una certa raffinatezza, una certa attenzione, che non può che giovare al mio lavoro e della quale devo ringraziare chi, come dicevo sopra, ha recensito i miei libri (in particolare “L’Eredità”). D’altro canto, non vorrei trasformarmi lentamente in un “critico”, per così dire, perché i critici di rado apprezzano davvero qualcosa; sono più portati a trovare i difetti, che a elencare i pregi; godono, tra virgolette, nel distruggere, più che nel supportare chi crea e costruisce.

Nella vita, sono sempre stato convinto che tutto debba reggersi sulle emozioni, sulle relazioni. La ragione serve solo da supervisore, da barriera di protezione per evitare di superare certi limiti pericolosi. Applicata alla lettura, questa “filosofia” mi porta a pensare che se uno scrittore, famoso o emergente, riesce a trasmettere sensazioni forti, riesce a creare un legame con il lettore – legame autore-lettore o autore-personaggi – i difetti dello stile e del contenuto passano in secondo piano. Ovviamente deve trattarsi di difetti marginali.

Scrivere è un viaggio, come ho intitolato questo blog. Allora, a mio parere, scrivere bene è saper prendere per mano il lettore e accompagnarlo in questo viaggio. Poi lungo la strada si può anche parlare in dialetto e si può sobbalzare con le buche nell’asfalto, ma se si sta bene insieme, se la compagnia è piacevole, l’esperienza sarà comunque magica e indimenticabile.   

martedì 15 gennaio 2013

Il mondo sommerso (2)


Quel mondo sommerso di cui ho già parlato, quello che ho scoperto quando mi sono affacciato all’editoria, non è fatto solo di migliaia di pesci. Ci sono anche, e soprattutto, i pescatori con le loro reti: le case editrici. Il paragone calza a pennello e si presta a spiegare ciò a cui mi sono trovato di fronte. Provo a schematizzare il tutto in categorie:

-         ci sono i pescatori malvagi, che ti catturano e ti buttano direttamente nella friggitrice: sono gli editori a pagamento, le cosiddette case editrici con contributo. In breve, per chi ancora non lo sapesse, dicono di aver letto la tua opera – di solito con tempi cento volte più rapidi di chiunque altro e spesso dicendoti che l’hanno fatto perché colpiti dalla qualità del tuo scritto – e ti offrono di pubblicarla, distribuirla, pubblicizzarla su giornali, TV, radio e trasmissioni interplanetarie, alla modica cifra di migliaia di euro. Voglio essere oggettivo e non cattivo: se un’opera è di qualità, se lo scrittore sa vendersi bene e lavorare per diffondere il proprio lavoro, questa scelta può comunque funzionare… ma perché spendere tutti quei soldi, se posso trovare condizioni analoghe con l’editoria senza contributo?

-         ci sono i pescatori “buoni”, che ti catturano e ti mettono negli acquari: nessuno è santo, sia ben inteso, e nessuno lavora solo per il profitto degli altri. Ma le case editrici che non richiedono un contributo economico all’autore, assicurando comunque un decente servizio di editing, una distribuzione potenzialmente a livello nazionale (poi lì si aprirebbe il discorso delle librerie…), un seppur minimo riconoscimento economico sulle vendite… beh, credo che rappresentino un’ancora di salvataggio per chi ha scritto qualcosa in cui crede e non vuole farsi fregare, ma neanche tenere il proprio manoscritto in un cassetto o auto pubblicarlo come una qualunque tesi;

-         ci sono i pescatori raffinati, le baleniere, che ti ignorano perché sei un pesce piccolo: non serve spiegare che alludo alle grandi case editrici, che hanno le porte sbarrate a meno che tu non abbia qualche conoscenza. Dico così perché sono convinto che non basti il talento: se un autore affermato a livello mondiale scrivesse il romanzo del secolo, ma lo inviasse a Mondadori sotto lo pseudonimo di Mario Rossi, non penso verrebbe mai preso in considerazione, perché dubito che leggano anche solo la sinossi dei testi che vengono loro inviati. Ci sono le agenzie letterarie e le conoscenze, ripeto, quindi se ne avete buon per voi.

-         ci sono le correnti sottomarine, che spingono i pesci un po’ più in superficie e permettono a qualcuno di saltare fuori dall’acqua: sono i servizi di auto pubblicazione, che permettono di vedere la propria opera pubblicata come un vero libro, potenzialmente (vedi sopra) disponibile in tutte le librerie e acquistabile online. Questa soluzione rappresenta un buon compromesso tra soddisfazione personale e contenimento della spesa, ma per chi ha ambizione di scrivere più di un libro deve essere solo un punto di partenza. Pescatori permettendo, ovviamente.